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Ambiente Clima Futuro – Elaborazione del Concept_08 di Renza Grossi, Gabriele Bartoli

Territori destinati alla produzione di energia o al turismo patinato che nasconde la vita vera degli abitanti. Territori che rivivono il paesaggio naturale soltanto nei murales. Il verde tra il cemento, la natura irreale e distante degli animali imbalsamati di un museo. Allevamenti intensivi al servizio della vanità. Lo scioglimento dei ghiacciai e l’innalzamento dei mari. Il Gruppo Fotografico Grandangolo propone una ricca selezione dei temi contemporanei più scottanti attraverso una raccolta di immagini di un presente-futuro perturbante.

Piera Cavalieri

 


Ambiente Clima Futuro – Elaborazione del Concept_08
di Renza Grossi, Gabriele Bartoli

In occasione dell’avvio del nuovo progetto nazionale della Fiaf, “Ambiente Clima Futuro”, il Gruppo Fotografico Grandangolo inizia un percorso di avvicinamento al tema attraverso la visione di progetti autoriali volti e indagare fotograficamente gli sviluppi climatici contemporanei. Il tema è stato concettualmente suddiviso in sotto temi per ognuno dei quali sono stati scelti due temi con punti di vista differenti o diametralmente opposti.

Partiamo dal presupposto che Ambiente, Clima  e Futuro sono tre termini differenti, che possono convivere insieme ma anche punti di partenza e di arrivo molto distanti: 

  • L’AMBIENTE è permeato nel presente, nel mondo contemporaneo, ma al tempo stesso ci può fornire un racconto preciso delle nostre azioni nel passato.
  • Il CLIMA è oggi al centro di innumerevoli discussioni e confronti ed è divenuto negli ultimi anni una vera e propria urgenza.
  • Il FUTURO è un invito a rivolgere lo sguardo personale e collettivo a ciò che accadrà domani, dopo di noi e verso chi erediterà il nostro mondo.

Sono tre direzioni solo all’apparenza diverse che in realtà possono coesistere ed essere conciliabili.

 

 

 


Vivere i contrasti

Da queste riflessioni abbiamo provato a trarre ipotesi per definire dei sotto-temi da indagare. Il primo preso in considerazione è VIVERE I CONTRASTI. Nel momento in cui si parla di Ambiente, dalla presenza umana, ma di un Clima che va degradando e condizionando il futuro delle generazioni, la prima parola emersa è contrasto, quello che affiora nel rapporto critico tra uomo ed ambiente naturale abbiamo raccolto l’esempio di due fotografi che hanno deciso di mostrare ciò che avviene in quelle parti del mondo in cui l’uomo cerca faticosamente di convivere con particolari situazioni ambientali o in cui l’uomo è la causa primaria della degenerazione dell’equilibrio naturale.

 

Mitch Epstein   è un autore americano che a partire dal 2003 ha intrapreso un percorso fotografico molto interessante nato dall’incontro del fotografo con la comunità di una piccola cittadina dell’Ohio. Il villaggio di cui racconta nei primi anni del 2000 viene materialmente acquisito dall’American Electrich Power la società nazionale dell’energia americana, una delle multinazionali più potenti del mondo. Il paese venne dunque smantellato pezzo per pezzo perché territorialmente la sua presenza risultava disturbante in quanto occupava un territorio destinato all’edificazione di centrali destinati alla produzione di energia.Epstein parte da qui per cercare di comprendere cosa sta accadendo all’America, la nazione che per decenni ha rappresentato un modello economico e che oggi si ritaglia il nuovo ruolo di un esempio negativo da rifiutare e non giustificare. Il fotografo nel suo American Power percorre 25 stati che cercano spesso di raccontare e ritrarre il rapporto difficile tra l’uomo e l’energia, tra l’uomo e il mondo naturale. Centrali elettriche, a vapore, nucleari, appaiono nelle sue immagini marcatamente ingerenti rispetto al mondo abitato e quotidiano, ma lo sguardo del fotografo si sofferma ad indagare anche sulla principale conseguenza della crescita economica dal monopolio energetico: il distanziamento sempre più marcato tra le classi sociale. Il suo è un ampio lavoro di reportage costruito sui forti contrasti contenutistici e che nel corso degli anni ha avuto esiti inaspettati: oltre al progetto fotografico hanno preso forma articoli, libri e addirittura uno spettacolo, costruito sull’interazione tra teatrale e immagine.

Mitch Epstein – American Power

 

 

 

 

 

 

 

 


Hann e Hartung sono due fotografi tedeschi che indagano le realtà territoriali e la convivenza delle comunità all’interno dei loro territori di provenienza. The Beauty and the Beast  è un lavoro del 2015-2016 realizzato nelle isole indonesiane, molte delle quali presentano vulcani attivi, il cui territorio è stato colpito dallo tzunami del 2002 e da svariate eruzioni avvenute nel tempo. Se nel nostro immaginario comune l’Indonesia è un luogo prettamente turistico, Hann e Hartung partono da questo tipo di visione per raccontare come realmente vivono gli abitanti. I due aprono il loro lavoro con le classiche fotografie da catalogo o rivista di settore per mostrarci via la vera natura del paese. Vengono mostrati i vulcani, chi è deputato al loro controllo, ma anche gli esiti della nascita di una politica sociale della prevenzione e messa in sicurezza degli abitanti. Le fotografie di luoghi e persone si alternano a quelle di oggetti significativi, come un frammento di lava o un telefono abbandonato, ma anche gli strumenti scientifici di valutazione e controllo dell’intensità degli eventi, fino ad arrivare ai cartelli ed ai segnali acustici che avvertono la popolazione del pericolo incombente. Un modo di indagare il territorio e l’ambiente che stride con l’immaginario collettivo dell’Indonesia evidentemente caratterizzato da una certa superficialità. L’immagine di chiusura del lavoro riprende la fotografia di una barca ripiegata su se stessa e corredata da una frase la cui traduzione è “non basta solo la fortuna per salvarsi” .

Hann e Hartung – The Beauty and the Beast

 

 

 

 

 

 

 

 


Nuova Botanica

Dopo aver indagato come il reportage può rendere visibili questi nuovi contrasti, subentra la necessità di consultare più a fondo i differenti ambiti naturali. Ed ecco allora che il nostro punto di vista si sposta verso il racconto di una NUOVA BOTANICA. I progetti scelti sono lucidi e disincantati e ci conducono in due luoghi molto diversi, che mostrano presupposti, contesti estremamente lontani tra loro.

 

Alexis Pike   è una fotografa americana originaria dei territori dell’Idaho, ancora presenti nell’immaginario comune come lo scenario delle grandi epopee del west. Vallate immense, ricchezze naturali straordinarie, bellezza e fascino insuperabili. Ma la Pike racconta come sia cresciuta in un mondo in cui la vegetazione è preclusa ad alcune classi sociali. Del 63% del territorio dell’Idaho, spazio pubblico appartenente al governo federale, il 39%, di fatto inadatto all’agricoltura e all’allevamento, risulta il solo rimasto effettivamente pubblico. Il restante 24% è stato venduto a privati ​​​​​​​​​​​​cittadini che sono arrivati  così a insieme il 64% circa del territorio dello stato. Si è creato quindi, una situazione particolarmente ambigua poichè gli abitanti dell’Idaho per poter raggiungere i grandi parchi naturali pubblici devono attraversare territori privati ​​​​e frequentemente preclusi al transito libero se non a seguito del pagamento di una tassa o di un biglietto. E’ da qui che parte Claimend’s Landscape il lavoro in cui la Pike sceglie di ritrarre non il paesaggio reale, ma il ricordo della grande epopea naturale del passato focalizzando l’attenzione sui murales che secondo la tradizione locale riprendo i paesaggi del luogo diventando inaspettatamente l’unica natura a disposizione di tutti. Se l’ambiente naturale non è accessibile l’unico modo per approcciarsi ad esso è la sua riproduzione e ciò che rimane sono solo segni, tracce di un mondo inaccessibile che emerge con tragicità tra le mura delle case, dietro alle lamiere, sotto lo strato artificiale costruito dall’uomo.

Alexis Pike – Claimend’s Landscape

 

 


Yang Wang Preston   è un autore anglo cinese che sposta il nostro sguardo dagli Stati Uniti alla Cina per andare ad indagare la megalopoli di Chongqing. Questa città sta diventando la più grande del mondo, si parla infatti di quasi 30.000.000 di abitanti. L’autore dal 2012 con Forest sta  seguendo l’ampliamento del tessuto urbano,  mostrandoci come oltre al costruire abitazioni e grattacieli si stia tentando anche di reinventare un rapporto con il mondo naturale, creando una nuova natura, una nuova botanica come inizialmente detto. Se abitualmente nelle città, nel momento in cui si pianifica l’edificazione dei quartieri si progetta anche l’inserimento di una piantumazione di arbusti indigeni, nel lavoro fotografico di Preston si nota invece come qui si sia scelto di piantare alberi già adulti, strappati da altri contest ambientali e quindi non autoctoni. Si passa quindi da un iniziale progetto ecologico di inserimento del verde all’interno del cemento ad una scelta prettamente estetica nel modo di trattare l’elemento naturale all’interno della megalopoli. Dove sono stati piantati gli alberi più belli, tanto più le abitazioni sono aumentate di prezzo. Il business economico è andato perciò rincorrendo il verde urbano, pur fagocitato dalla città. Il Futuro in questo caso è rappresentato dal tentativo di immaginarsi come potrebbe essere questo nuovo ambiente urbano nei prossimi anni e in tal senso le immagini risultano molto interessanti perché mettono in evidenza il drammatico contrasto tra le dimensioni degli alberi seppur adulti e la monumentalità strabordante degli edifici intorno a loro.

Yang Wang Preston – Forest

 

 


Umano o Animale?

UMANO O ANIMALE.  Se si parla di nuova botanica è fondamentale trattare anche il mondo animale e il suo rapporto spesso conflittuale con l’uomo. I due lavori scelti hanno fotograficamente un sapore completamente diverso. Durante una visita nel 2008 all’America Museum of Natural History di New York, la fotografa americana Traer Scott realizza scatti, molto intriganti, ai diorami che ritraggono la messa in scena di composizioni animali. Nasce così Natural History. L’immagine del marito riflessa sul vetro si è andata a sovrapporre a quella degli animali tassidermizzati e l’autrice ha iniziato a riflettere sul modo in cui i moderni visitatori osservano ed interagiscono con un mondo naturale che è “costruito”, che trasmette aggressività, paura, impazienza, ma che non è la realtà. Eppure la maggior parte delle persone oggi ha solo questo tipo di approccio con la natura, distante, irreale e mediato dalla finzione costruita. Quello della Scott è un piccolo lavoro a km zero, dove illusione e concretezza si mescolano in modo affasciante.

Traer Scott – Natural History

 

 


Quello di Paolo Marchetti, The Price of Vanity,  è un grande progetto, di dimensione globale. L’autore ha realizzato un imponente lavoro di reportage sul “dietro le quinte” della produzione dei capi di abbigliamento, che ancora oggi sono considerati status symbol. Ecco allora che il fotografo mostra gli allevamenti intensivi di tre animali, i visoni in Polonia, gli struzzi in Colombia e gli alligatori in Thailandia, interrogandosi, come dice il titolo, sul prezzo della vanità umana. Negli allevamenti intensivi si tende ovviamente ad ottenere il maggior risultato possibile con il minor costo produttivo possibile.  Le fotografie di Marchetti ci restituiscono un mondo crudele non solo per la violenza delle azioni compiute sugli animali ma anche per la durezza delle condizioni lavorative. Osservando queste immagini verrebbe da chiedersi quale sia realmente l’animale…  Il fotografo non si limita a ritrarre gli allevamenti ma si spinge a documentare tutta la filiera produttiva fino alla sua esposizione nelle vetrine dei negozi. La domanda che ci si pone riguarda non solo l’etica, ma anche sostenibilità di questo tipo di commercio in un mondo in cui molte specie animali anche a causa delle condizioni climatiche via via scomparendo.

Paolo Marchetti – The Price of Vanity

 

 


Un altro modo di raccontare

UN ALTRO MODO DI RACCONTARE. Esistono altri modi per raccontare la fragilità del mondo naturale? E’ la domanda che ci siamo posti e che ha trovato una prima forma espressiva nei due autori successivi.

 

Chris McCaw è un autore che ha sempre amato giocare con particolari processi fotografici. Il fotografo americano che durante una gita in campeggio organizzata con l’intenzione di scattare, con una fotocamera di grande formato, l’arco delle stelle che si muoveva nel cielo notturno si è imbattuto in un risultato tecnico inaspettato. McCaw si addormenta e la mattina successiva non sente la sveglia puntata per poter chiudere quella lunga e singola esposizione, ed essendo già stata sorta il sole, la pellicola risulta ovviamente rovinata. Ma la sorpresa del fotografo è grande quando scopre che la luce ha letteralmente bruciato la pellicola, creando un buco, un solco.Una volta stampati i negativi che appare è una immagine consumata dalla luce che diviene emblematica rispetto alla forza e al potere che il sole ha sul mondo. McCaw decide così di realizzare Sunburn, una serie di scatti, singoli, dittici e trittici, che mostrare poeticamente squarci nel cielo, strappi ardenti, divenendo piccole opere d’arte uniche e preziose.

Chris McCaw – Sunburn

 

 


Il fotografo francese Florian Ruiz si è recato a visitare la prefettura di Fukushima a seguito della fuga di nube tossica dopo il terremoto e lo tsunami che si sono abbattuti sul territorio. Come fare per riprendere una zona contaminata e riprodurla in fotografia, mostrando quindi un ambiente naturale normale ma riuscendone a raccontare la radioattività che lo avvelena? Questa è la domanda che si è posto l’autore nel realizzare The Invisible Pain. Ruiz ha utilizzato una sorta di macchina a foro stenopeico scattando tante piccole immagini e andandole in seguito ad assemblare come un mosaico ed infine inserendo in basso a destra dei numeri in rosso che documentano il grado di radioattività della porzione di territorio fotografato. Sono immagini di grande formato che si impongono con un notevole impatto estetico visivo che se a un primo sguardo attraggono per la bellezza ed eleganza, colpiscono poi per la resa della frammentarietà angosciante di un ambiente violato.

Florian Ruiz – The Invisible Pain

 

 


Segni del Cambiamento

Ma quanti e quali sono i   SEGNI DEL CAMBIAMENTO? Alcuni sono visibili, altri meno, spesso sono drammatici anche quando vengono raccontati con grande eleganza o sottile ironia come in questi due progetti. 
Lontana, eterea, magnifica. L’Antartide appare ancora oggi ai nostri occhi come una delle poche terre incontaminate del pianeta, un luogo in cui si può realmente respirare, affascinante ed ancestrale. Terra anelata da esploratori e viaggiatori, oggi l’Antartide è un archivio ambientale, il Punto Zero per conoscere lo stato climatico e quindi comprendere il nostro destino.

 
In  Sans Nom, Jean de Pompereu   si è concentrato nel ritrarre gli iceberg senza nome, immensi blocchi di ghiaccio vulnerabili ed al tempo stesso eterni, avvolti nel silenzioso e magico nulla, protetti dall’uomo ma guardati come cartina tornasole per il nostro futuro. Ed ecco che attraverso gli occhi del fotografo improvvisamente si apre davanti a noi una crepa, che si fa sempre più prodotto, che sancisce però simbolicamente la frattura dell’equilibrio perfetto di questo luogo incontaminato.

Jean de Pompereu – Sans Nom

 

 


Dal ghiaccio si passa alla neve con il lavoro Snow Land di  Marco Zorzanello  che ci propone un reportage realizzato sulle nostre Dolomiti e che mostra come la mancanza di neve stia mettendo in difficoltà tutto ciò che ad essa è collegato, dall’indotto economico a quello turistico a quello sportivo. E’ un lavoro intelligente, ironico, amaro, che ci racconta come siamo già ampiamente circondati dagli effetti reali dell’acuirsi dei cambiamenti climatici. Qui il pensiero lo sguardo dell’autore sapientemente rivolto in avanti costringendo gli osservatori a domandarsi costantemente cosa accadrà nel prossimo, immediato, futuro.

Marco Zorzanello – Snow Land

 

 


Punto di Non Ritorno?

Siamo giunti al  PUNTO DI NON RITORNO  per quanto riguarda il nostro rapporto con l’ambiente e la natura?

 

Nel suo lavoro  On the Shore of a Vanishing IslandDesung Lee  racconta dell’Isola di Ghoramara, che si trova nella regione del delta del Bengala Occidentale e che a causa del drammatico aumento del livello del mare rischia di scomparire. A partire dagli anni ’80 le coste dell’isola hanno subito l’erosione del 50% del terreno da parte del mare e due terzi della popolazione, dedita alla pesca e all’allevamento, ha abbandonato la terra natia. Secondo il governo nel giro di circa 20-25 anni l’isola potrebbe scomparire completamente e quindi sarebbe cancellata anche dalle carte geografiche. La popolazione che ancora vive sull’isola verrebbe evacuata e gli abitanti, che Lee fotografa in piedi su di un frammento di terra lambito dal mare, potrebbero vedere svanire completamente le tracce del loro passato. E’ emblematico il fatto che il fotografo ritragga non solo persone, ma anche piante le cui radici senza terreno sono sofferenti come le persone che non riescono più a porre i piedi sulla terraferma, esposti tutti al nulla incombente, all’incertezza del futuro.

Desung Lee – On the Shore of a Vanishing Island

 

 


Anche Guia Besana con  Poison  ci mostra la sua interpretazione di una umanità ormai arrivata al collasso. Siamo davanti ad un raffinatissimo esempio di Staged Photography in cui la Besana, una vera maestra del genere, ci mostra le cause della imminente fine del mondo, ecco che nelle sue fotografie scorrono temi importanti come la terra che brucia, la morte delle api, la sicurezza, la sovra produzione della plastica, l’avvelenamento da pesticidi, lo smog, la natura costretta dall’uomo, l’uomo che diventa un simulacro da esporre come gli animali-trofeo, l’inquinamento. Ed infine l’ultima immagine piena di speranza, che consegna il futuro nelle mani delle nuove generazioni. Le sue non sono rappresentazioni urlate, ma sussurrate, accennate per lasciare noi pieni di stupore, meraviglia, bellezza, paura, disperazione ed infine fiducia.

Guia Besana – Poison

 

 


Cercare l’Armonia

L’ultimo lavoro è stato scelto anche per la sua carica poetica e positiva, per poter  guardare al futuro del mondo non solo in modo pessimistico ma lasciare aperta una speranza, seppur fragile, di poter nuovamente  CERCARE L’ARMONIA apparentemente perduta tra uomo e natura.

 

Con Stars,  lavoro del 2014, la fotografa americana Ellie Davis racconta il suo profondo desiderio di poter ritrovare quell’equilibrio tra la connessione con il mondo selvaggio, che lei stessa ha vissuto fin dalla prima infanzia, e quel senso di disconnessione con il mondo naturale che è andata sperimentando allontanandosi gradualmente dai luoghi natii durante la sua vita da adulta. Oggi la maggior parte delle persone vive in ambienti urbani o semi urbani e percepisce il paesaggio naturale da una posizione distante, divenendone spettatore distaccato e non protagonista. Questo rapporto diventa ogni istante più fragile e lontano dal senso di profonda magia e misticismo ancestrale che legava i nostri antenati al loro ambiente.Ed ecco allora che la Davies decide di creare nuovi paesaggi sovrapponendo le fotografie dei boschi della sua infanzia con quelle delle stelle della Via Lattea, di Omega Centauri, della Galassia Norma e della Nebulosa NGC 346 realizzati dal telescopio Hubble. Ritroveremo la meraviglia? Ritroveremo la magia? La speranza è che meraviglia e magia non siano ancora scomparse del tutto, e che l’armonia dell’immensità del cielo possa essere ritrovata anche qua, nel nostro difficile rapporto con ciò che ci circonda.

Ellie Davis – Stars

 


Renza Grossi
Tutor Fotografico FIAF
Lettore della Fotografia FIAF

 

Gabriele Bartoli
Animatore Culturale FIAF
Lettore della Fotografia FIAF

 

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