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Silenzio come di neve.

Matera – Prima di Piazza Vittorio Veneto il pavimento madreperlaceo pare lustrato da una lucidatrice. Si sta proprio bene qui. Il ragazzo e la ragazza ci passano sopra scimmiottando il jogging, allegramente sbronzi. Non c’è un odore nell’aria, solo una piccola eco di umidità marina, col preannuncio di temporale. Piazza Vittorio Veneto piastrellata a dorso di tartaruga, spicchiata coi sottolivelli archeologici, gli ulivi e i palazzi arabeggianti e la fontana che si accende a intervalli – fra sfrigolii elettrici – con quattro pennacchi da sfiatatoio intrisi di colori sgargianti che quando si spengono l’acqua in cima pare uno che improvvisamente gli manca la terra sotto i piedi. Un tipo legge satanicamente un libro camminando, e l’accessoriata deambulazione pare ancora in fase di rodaggio. Dal belvedere, i sassi caveosi promiscui e interlacciati e mediorientali nella cavità conica di fronte ai quali mi arrendo, malgrado ritrosie e infiniti tentativi, all’evidenza che “presepe” è l’analogia per quanto usurata, più appropriata. Gli scintillii immobili. La calma serafica anche quando inizia a piovere. Le campane fanno un suono acciaccato che provoca un’eco prima dell’eco. Sulla via del ritorno c’è animazione attorno ad un’automobile ferma sulla mezzeria: donne grasse e pantomimiche, scendendo, eseguono tutte quante eloquenti gesti da sordomute. Il grande parcheggio è tanto disponibile quanto indifferente. Le nuvole hanno tessuto un tappeto rosso nel cielo.

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Girotondo notturno per Matera. A partire dalle quarantacinque scure occhiaie del palazzo di Giustizia, gli edifici pubblici hanno qualcosa di carcerario. Le vecchie scuole elementari sembrano un ospedale militare. Per le strade il traffico quieto e feriale viaggia a velocità di crociera, e certi motori paiono persino riluttanti. Ragazzetti con spalle magre e puntute come stampelle stanno ammassati sull’unico gradino di una gelateria. Innaturalmente silenziosi. In via Domenico Ridola ci sono giochi d’ombre, e le case sono incappucciate dal buio: ai tavoli dell’Hemingway caffè ragazze con grandi calici nella coppa delle mani si guardano attorno con ferina curiosità ( una fa tutta una torsione su se stessa eppoi si ricompone, acquietata ). Dai lampioni piovono bandiere italiane, il vento tenta di rianimarle. Il marmo delle cattedrali è butterato. La facciata della Chiesa del Purgatorio si sporge come la prua di una nave. Anditi di barocco ovunque guardi. Le chiese maestose e insostituibili, coi sagrati ariosi e scenografici e vuoti come una scenografia senza maestranze, a quest’ora. Soggezione millenaristica davanti alla facciata della Chiesa di San Francesco: conchiglie, drappi grinzosi e foglie d’acanto tutti eccessivamente arzigogolati, cerebralmente sinistri, sul punto di animarsi. Nubi sabbiose scorrono precipitosamente nel cielo notturno, e c’è un silenzio come di neve. Al Ristorante Basilico serviti e riveriti e impinguati come nababbi, tutto spontaneamente, con calici di vino bianco fruttato dal sapore caleidoscopico e piccole frastagliate pepite di parmigiano. Fraternizziamo nella mezzaluna dei tavoli all’aperto, con le chiacchiere modeste e rispettose degli ultimi avventori, la maggior parte delle sedie a talloni per aria. Dentro al ristorante tavoli sonnacchiosi nel giallo pallido ascoltano la tv fare il suono di quando la lasci accesa e ti addormenti sul divano. Prima di Piazza Vittorio Veneto il pavimento madreperlaceo pare lustrato da una lucidatrice. Si sta proprio bene qui. Il ragazzo e la ragazza ci passano sopra scimmiottando il jogging, allegramente sbronzi. Non c’è un odore nell’aria, solo una piccola eco di umidità marina, col preannuncio di temporale. Piazza Vittorio Veneto piastrellata a dorso di tartaruga, spicchiata coi sottolivelli archeologici, gli ulivi e i palazzi arabeggianti e la fontana che si accende a intervalli – fra sfrigolii elettrici – con quattro pennacchi da sfiatatoio intrisi di colori sgargianti che quando si spengono l’acqua in cima pare uno che improvvisamente gli manca la terra sotto i piedi. Un tipo legge satanicamente un libro camminando, e l’accessoriata deambulazione pare ancora in fase di rodaggio. Dal belvedere, i sassi caveosi promiscui e interlacciati e mediorientali nella cavità conica di fronte ai quali mi arrendo, malgrado ritrosie e infiniti tentativi, all’evidenza che “presepe” è l’analogia per quanto usurata, più appropriata. Gli scintillii immobili. La calma serafica anche quando inizia a piovere. Le campane fanno un suono acciaccato che provoca un’eco prima dell’eco. Sulla via del ritorno c’è animazione attorno ad un’automobile ferma sulla mezzeria: donne grasse e pantomimiche, scendendo, eseguono tutte quante eloquenti gesti da sordomute. Il grande parcheggio è tanto disponibile quanto indifferente. Le nuvole hanno tessuto un tappeto rosso nel cielo.

Matteo Fulimeni

 

© Giovanni Marrozzini

 

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© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

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