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Rabatà.

Tursi – La Rabatana ( MT ) – La sera, le pietre di La Rabatana si liberano del calore ed emanano un aroma caldo, saturo di umidità. La chiesa è intonacata di rosa corallo ed ha un rosone che sembra un rombo di materia fusa e una croce che sembra una doppia ascia. Qui l’odore è floreale. Tre rondini garriscono impettite sul cavo della luce, poi si lanciano. Due di loro formano una coppia e fanno una giocosa scia elicoidale. Ci sono scorci che non ci credi, come il vecchietto che riposa su una sedia sotto una pergola dopo un arco a sesto acuto fra colori pittoreschi. Il richiamo dei colombacci è in qualche modo agghiacciante, come uno che riemerga dall’acqua dopo essere rimasto sotto troppo a lungo. Molte porte sono sprangate. Certe case ormai da tempo evacuate. Ci sono stretti spazi in cui hanno ricavato degli orti. Ne vengono odori balsamici. Scendendo in basso si arriva fino ai bordi del tufo. Di sotto, metri e metri a precipizio. L’angolo del sole, a quest’ora, fa sfavillare il canyon come rame. Le ombre si attagliano alle superfici con esattezza impeccabile. Le foglie del fico accennano ad avvoltolarsi, e i frutti, ancora acerbi, sono duri, verdi e tuberosi.

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La Rabatana. In cima al paese c’è un grande piazzale. Siamo parcheggiati nel piazzale, sotto ai pini. Il vento si infila fra gli aghi dei pini e fa quel fischio a metà fra un fischio e un soffio. Tutto molto romantico. Il vento molto caldo. Nel cielo c’è una nube lenticolare bella affusolata, ed è così grossa che pure nella burrasca si muove impercettibilmente. Lungo la piastrellatura del piazzale si apre una crepa che ci ricorda la tutt’altro che assoluta stabilità della crosta terrestre. Tutta la parte alla nostra sinistra è un becco che ha buone possibilità di staccarsi e scivolare giù nella valle. Che è più un crepaccio. Al paese si scende, in fondo, tutto avvinghiato alla china fin dove può. Si vedono le prime casette laggiù, con l’indicazione per un ristorante. Un vecchietto del paese, molto presto, stamattina, con l’umidità non ancora bruciata dal sole, un vecchietto piccolo e squadrato, con piccola testa e piccoli occhi cerchiati da piccoli lembi pendenti di rosso degli occhi, l’espressione neutra quasi professionale, si è come materializzato davanti al camper, e lì è rimasto, per un pezzo, con la ferma intenzione di autoproclamarsi Cicerone del posto. Impalato. E’ rimasto lì due ore buone, ad aspettare. Avendo le nostre cosette da sbrigare, alla fine se ne è andato. Non prima, però, di avermi accompagnato in cima al belvedere. Il belvedere è una specie di ziggurat che si solleva sopra ai bastioni di tufo alla nostra destra, alla destra del piazzale, e sul cui stretto ultimo livello troneggia un binocolo a gettoni WTB COIN BINOCULAR vandalizzato e fuori uso. Da quassù si vede Tursi, là sotto, dalla visione del \ della quale si evince una certa incallita noncuranza per i piani regolatori. E si vedono un sacco di altre cose. Garantisce il vecchietto che scevro di umidità, il belvedere prevede la vista forte e chiara di Taranto, lì sulla sinistra. E del mare. E’ un vero peccato questa mattina tutta questa umidità. E fa una freccia aeroportuale con tutte e due le braccia verso ciò che ci è precluso. Il vecchietto si chiama Pasquale. Ma non passa troppo tempo che siamo dietro a Nicola, più che un uomo un paesaggio, un altro vegliardo di qui a venirci incontro spontaneamente: grossi padiglioni auricolari scintillanti e mano elegantemente dietro la schiena, come una pinna o un’ala atrofica. Tendenza al sorriso e al comando inteso come abitudine all’obbedienza, con quel dispotismo reso più amabile e addolcito dalla senescenza. Bastone e ritmo piedi-bastone dalla cadenza ordinata e impeccabile. Abbigliamento di incredibile a-stagionalità. Abbigliamento con persino la giacca. Giacca fino alle falangi e intoccabile e sacrosanta coppola copri calvizie sempre in testa. La stalla di Nicola sta lungo una sinusoide scavata nel tufo, stretta e tatooiniana, su una parete di tufo, col sentiero che ad un certo punto si libera delle pareti a destra e a sinistra e continua a scorrere libero e tangente alla parete verso Tursi laggiù. Ventoso. Anche qui siamo altissimi. Piante grasse sui ripidi crinali sembrano stelle marine. O tentacoli. La stalla ha una volta a botte e innumerevoli capillari che pendono dall’alto. C’è una grande scorta di fieno. E un’asina. Bianchina. Il ruminare di bianchina fa un rumore ferroviario. Il culo di bianchina è secco e carenato. Nicola la scudiscia più volte sul naso nero ed umido. Sopra di noi c’è uno spicchio di tufo coronato da un paio di verdissimi pini d’Aleppo. Prova a chiedere a Nicola qualcosa della sua vita e lui ti descrive la topologia di tutta la regione.

 Da queste parti c’è stata una bella baldoria genetica. E puoi così avere la straniante sorpresa di scoprire su visi dalle linee tumide e carnose e di indurita e affumicata sebosità mediorientale piccoli e glaciali e inaspettati occhi glauchi o azzurri o trasparenti.

 La sera, le pietre di La Rabatana si liberano del calore ed emanano un aroma caldo, saturo di umidità. La chiesa è intonacata di rosa corallo ed ha un rosone che sembra un rombo di materia fusa e una croce che sembra una doppia ascia. Qui l’odore è floreale. Tre rondini garriscono impettite sul cavo della luce, poi si lanciano. Due di loro formano una coppia e fanno una giocosa scia elicoidale. Ci sono scorci che non ci credi, come il vecchietto che riposa su una sedia sotto una pergola dopo un arco a sesto acuto fra colori pittoreschi. Il richiamo dei colombacci è in qualche modo agghiacciante, come uno che riemerga dall’acqua dopo essere rimasto sotto troppo a lungo. Molte porte sono sprangate. Certe case ormai da tempo evacuate. Ci sono stretti spazi in cui hanno ricavato degli orti. Ne vengono odori balsamici. Scendendo in basso si arriva fino ai bordi del tufo. Di sotto, metri e metri a precipizio. L’angolo del sole, a quest’ora, fa sfavillare il canyon come rame. Le ombre si attagliano alle superfici con esattezza impeccabile. Le foglie del fico accennano ad avvoltolarsi, e i frutti, ancora acerbi, sono duri, verdi e tuberosi.

Salvatore Di Gregorio ha raccolto cortecce di queste valli per farci un profumo. Voleva sintetizzare la sua terra così. Cosa che poi effettivamente ha fatto. Si chiama Rabatà, il profumo. Te lo spruzzi e ti sembra di avere addosso l’aroma di un ultra-agrume: limone, arancio, mandarino e qualcos’altro che non so, e vorresti morderti la mano per quanto è dissetante. Capisco poi la differenza fra essenza e profumo, che è molto semplice, e sarebbe che l’essenza è per il profumo quello che l’elettrone è per l’atomo, oppure, meglio, l’atomo per la cellula e così via.

Nei bastioni di tufo si aprono delle grotte. Sul pavimento delle grotte c’è un greto di pietrone malferme. Non si capisce se queste grotte sono robe antiche o diavolerie turistiche. Sotto al pavimento scorrono cavi della luce. Alle pareti ci sono loculi rotondi e grandi e catacombali. Le pareti sono istoriate da acqua e vento – che qui si infila tiepido e teso – e graffiti. Le aperture in fondo ad ogni sala danno sull’ampio paesaggio dall’altra parte. Dalle arcate piove una luce azzurra.

Matteo Fulimeni

© Giovanni Marrozzini

 

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