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Abbiate pietà di noi.

Monte Sant’Angelo (FG) – Qui davanti rallenta e si ferma un corteo nuziale. La sposa scende dall’auto, con grande impaccio, fra multistrati di tulle. Il marito, dal viso notarile, precocemente calvo, le copre le spalle. Il cameraman è ultraprofessionalmente imbracato da quella che spero non sia una steady-cam. Ma invece lo è. Qualcosa, girando per queste vie, mi angoscia e mi fa stare teso. E’ come una blanda vibrazione di senso del dovere. Non so cos’è. Poi capisco. E’ Padre Pio. Ci sono statue di Padre Pio, statue in gesso alte come un bambino che compaiono quando scantoni, negli angoli, proditorie e inattese, col palmo benedicente e bucato e quell’espressione inumanamente docile che pare pretenda da te una bontà altrettanto inumana. Arrivo ad una piazzetta vicino a Santa Maria Maggiore. Chiedo ad un gruppo di ragazzine immerse nel dolce far niente che piazza sia questa, ma non me lo sanno dire. Affondano tutte nella timidezza. Di colpo compaiono gli sposi di prima, con l’ampio codazzo di immortalatori professionisti. Il reporter, con la steady-cam in quel modo, noto meglio adesso, sembra Edward mani di forbice. Il fotografo ha intenzione di sfruttare una lama di luce che disegna un sette su un muro per accrescere la potenza della memorabilità del bacio nuziale. Sistema gli sposi sulla lama di luce. Le ragazzine sciamano veloci verso una scaletta dove si siedono compresse per seguire la scena da una posizione favorevole, sgranocchiando schifezze. Alla sposa viene fatta assumere una posa di giubilo innaturale, e il marito si deve spezzare la schiena per baciarla. Si china e la bacia. La prematura calvizie risplende nella luce rosé.

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Gargano. Man mano che si sale la pianura perde ogni accennata asperità, diventa una pellicola geometricamente maculata. L’orizzonte marino si allunga e si eleva fino a confondersi e a dissolversi nel cielo. Il porto diventa una linea sottile, il corpo secco e galleggiante di un insetto, senza peso. Il mare è una grande macchia priva di moto e di increspature. Il cielo è obnubilato. La ciminiera della raffineria sputa un immobile filo di fumo nero. Ombre veloci scorrono là sotto, nel vento. Sul pendio di un tornante c’è una mucca che rumina: alza la testa. Siamo quasi in cima. Monte Sant’Angelo sborda dall’altipiano. Tutta la parte nuova incombe maligna sulla veduta con cinismo edilizio, arroganza immobiliare, nessuna compassione paesaggistica. Piove. Le vie del paese – scriteriate, disordinate, ammonticchiate, sporche, grigie d’asfalto, deserte – sono squallide e tristi, sotto la pioggia novembrina. E’ freddo. Ci inerpichiamo fino al parcheggio degli autobus, grande, dove ti introducono guardiani che hanno facce da pastori, bruciate e senza dentatura; portano berretti sdruciti e sgargianti camice di pile. Siamo sulla sommità. Qui dietro c’è il vecchio nucleo storico, la parte propriamente turistica. E’ un’altra cosa. Di fronte, però, non manca una megastruttura alberghiera con bar, self service, ristorante e pizzeria. Nel parcheggio stanno spiaggiati gli autobus, di svariate compagnie, disciplinati e affidabili. Il cielo si contempla nelle grandi pozzanghere. Verso gli autobus scorre una lenta e spiritualmente appagata processione di pellegrini. Sono donne e uomini anziani o di mezza età. Ma perlopiù anziani. Le donne sono spesso molto grasse. Tengono spalancati sopra di loro grandi ombrelli colorati. Recitano innocue freddure, delle quali ridono con esasperazione. I mariti portano berretti sportivi, e occhiali da sole appoggiati alla visiera. Sono tutti a loro modo felici, sereni e soddisfatti. Si portano dietro sacchetti di plastica. Salgono sull’autobus. Si sistemano. Guardano dai vetri. Tornano a casa. La pioggia continua a picchiettare sul parabrezza del camper, in piccole rapide gocce che una volta cadute si raggrinzano, finché il cielo non comincia a tergersi. Qui dietro ci sono casotti in muratura per i souvenir. Sul davanti hanno tutto un adipe di roba tipica, chincaglieria religiosa, ricordini e altre cose assolutamente non peculiari e che non si capisce perché uno debba comprarle lì. Da uno di questi casotti si diffonde a ciclo continuo, con crudele ostinazione, un’invocazione neomelodica a Padre Pio, di lancinante stucchevolezza. Io mi muovo. Scendo giù. Mi inoltro nel borgo. C’è subito il castello Normanno Svevo Aragonese. Sembra di sabbia. Il fossato è naturalmente asciutto ma bello foderato di maleducazione turistica. Nel fossato c’è un cavallino che pasteggia e trotterella. Ma quando lo adocchio, per un attimo mi sembra impagliato da quanto è immobile, e, sempre per un attimo, mi agghiaccia e mi fa orrore come tutti gli animali impagliati. Una ragazzina tenta a lungo e inutilmente di scuoterlo dal suo torpore, con innumerevoli lusinghe e vezzeggiativi. Poi desiste e se ne va, mortificata. Io resto un altro po’. Il cavallino è nero, vellutato. Dopo qualche minuto di stallo, spontaneamente, si scuote e si allontana al piccolo trotto. Faccio il giro attorno al castello e mi trovo su un belvedere. Da qui si può capire quanto sia grosso e continentale il Gargano. Dall’orizzonte non trapela la fine. Foresta quasi dappertutto; monti e valli e declivi lisci e verdi e dorati nel tramonto brumoso, azzurrino. Nuvole taglienti fendono il sole. I nibbi si avventurano neri nel controluce. Ombre lunghissime dalle case ai margini dei campi, coltivati ma spettinati, cisposi. Anche qui i tamburi di latta dei campanacci, invisibili, da qualche parte. Il vento fa uno sciabordio fra i rami. Torno al paese. La scalinata, morbidamente irregolare, è l’eden del mercimonio spirituale, l’eliso della venalità. Qualcosa dentro di me auspica un revival postmoderno di Gesù nel tempio, con Gesù che fa a pezzi le bancarelle con un’affilatissima spada Hattori Hanzo. Le bancarelle e i negozi stanno sui lati della scalinata. Scoppiano di roba. Il commercio della credulità è equamente ripartito fra San Michele Arcangelo e Padre Pio, praticamente un duopolio. Però devo dire che la faccia di Padre Pio surclassa, da queste parti, quanto a copertura, la Gioconda. Le pose sono due tre al massimo, replicate all’infinito: Padre Pio guarda in basso, verso un punto indefinito ai suoi piedi. Oppure benedice, col suo minuscolo sorriso. Intorno a Padre Pio, inconsapevole, volano bianche colombe. Ci sono ventagli di Padre Pio. Ninnoli di Padre Pio. Portachiavi di Padre Pio. Bracciali di Padre Pio. Corone. Boccette di neve. Penne. Sandali. Statue in legno. Tutti di Padre Pio. Me ne sto lì davanti, penna e moleskine, a catalogare la paccottiglia del santo per farne l’enumerazione di cui sopra, quando gli esercenti iniziano a scambiarsi intense occhiate di intesa sospettosa. Un mercante del tempio mi supera e si mette a parlare con un altro, si mette a confabulare dandomi le spalle – spalle rotonde e scure – mantenendo comunque un contegno tollerante, e da quel che riesco a percepire nel discorso, nel bisbiglio idiomatico, comprendo che in qualche modo temono che io stia segnandomi i prezzi del ciarpame celeste, violando, come un indesiderato emissario della concorrenza, un qualche accordo segreto di cartello o che so io. Comunque me ne vado, e loro mi fissano con facce non proprio spirituali. Negli spazi lasciati liberi dai mercanti di ciarpame, venditori abusivi di borse contraffatte. Tutti africani. Il vento fa ballare le falde dei lenzuoli su cui è dispiegata la merce. Quando c’è puzza di autorità, fanno del telo un fagotto e si allontanano e bivaccano in qualche angolo seminascosto, parlottando, oppure in silenzio, stanchi, tristi. I muri delle case – piccole casette puntute, bellissime, incastonate nelle vie, angolose, spigolose,con, sulla facciata, appena una finestra, o una porta, e raramente una porta e una finestra – sono bernoccoluti come vespai. Mi muovo fino al Santuario di San Michele Arcangelo. Già fuori c’è un odore di incenso e acqua santa ( L’acqua santa ha un odore – è indubbio – un odore floreale). La torre campanaria è federicianamente ottagonale, senza tetto. Qui, un tipo rubizzo, con occhi spiritati e quell’espressione attonita che fa sexy Ethan Hawke mi chiede spicci per un panino. Faccio lo gnorri crudele. Lui mi oltrepassa e si accoccola sullo stipite del santuario. Prima di entrare nel santuario mi sposto sulla destra, dove c’è una chiesa e sta iniziando la messa. E’ tutto un dignitoso scalpiccio e un risistemarsi di baveri. Gli alberi fischiano e soffiano anche qui. Entro. La gente è variamente seduta o in piedi o inginocchiata sulle panche. Sono quasi tutti anziani. Alle invocazioni, scandite da una voce di ragazza con tono neutro da cancelleria, segue una replica biascicata. L’abbi pietà di noi è strascicato, la prima a si allunga elastica e si appoggia sulla b, e il resto della frase è contratta e frettolosa. Continua così finché non esco per tornare al santuario. Qui, nell’atrio, sulle bacheche, ci sono due poster di Giovanni Paolo II. Uno di questi ha tutte le sembianze di un santino, e la cosa mi stranisce un po’. Dietro la testa rotonda del papa c’è il bagliore aurorale che non ti aspetti, per un contemporaneo. Scendo le scale e mi immergo nella luce verde. Dal negozio di souvenir dabbasso ( immancabile ), proviene un parlottare acceso. La signora dei souvenir, dalla dentatura stramba, dialoga cripticamente – per il sottoscritto – con una cliente. Discutono di non so che, e in più la lingua sembra il tedesco – ma è il dialetto di qua. Vengo sfiorato da una piccola suora. Il rosa carne dell’abito è provocatoriamente virginale. L’abito è liscio e stirato, fresco. Scompare nella grotta. Dove mi dirigo anch’io. Qui è vietato entrare vestiti indecentemente. Nella grotta c’è una chiesa. Anche qui è in corso la messa. Le rocce hanno un odore spugnoso di straccio bagnato. Qui è bellissimo. Alla mia sinistra ci sono scranni di legno scuro su cui piomba violenta, dal finestrone a sesto acuto, una luce azzurra. La cappella in fondo è piena di altorilievi. L’altare è ricavato in un angolo a destra, sopraelevato e con balaustra: in una teca luminosa San Michele Arcangelo pesta il diavolo nella sua posa efebica. Mentre riemergo, una voce, di amplificata terribilità, ingiunge il silenzio – disfacendolo in un modo che mi mette il nervoso. C’è un’animazione cerimoniosa e liturgica, nei vicoli. Tira vento, come sempre. E davanti ad un negozietto di artigianato le belle girandole, coccinelle e farfalle, vorticano irrefrenabili. Le osservo attentamente, carta e penna, per descriverle con accuratezza. Non passa molto prima di perplimere, con la mia presenza indagatrice, la signora all’interno, seduta su uno sgabello, la cui faccia gradualmente si piega in modo tale da fessurizzare gli occhi. Ancora due secondi e una figura maschile gli si para protettivamente davanti, con curiosità intimidatoria. Sotto pressione, schiodo. Non c’è solo il mercimonio, per i vicoli. Qui è una vera e propria orgia potenziale di carboidrati. Praticamente la morte, per il celiaco. “La vera pasta di Monte Sant’Angelo”. “Odori e Sapori”. “ Le delizie di Maria Rinaldi”. “ Mio Gargano antichi sapori”. Pietrone di pane pugliese sono ostensivamente montate su cavalletti. Grosse bolle di caciocavallo, impiccate, gonfie come bisacce. Confetture. Entro dove c’è scritto “ingresso libero” e mi faccio un giretto fra sacchetti di orecchiette e cavatelli. La tipicità alimentare che più mi incuriosisce, per via del nome blasfemo, è l’ostia ripiena. L’ostia ripiena è una specie di piadina farcita di mandorle caramellate, tipo croccante. Continuo a passeggiare. La casa del pellegrino è certificata dall’associazione internazionale ricerche sui santuari, qualunque cosa voglia dire. Qui davanti rallenta e si ferma un corteo nuziale. La sposa scende dall’auto, con grande impaccio, fra multistrati di tulle. Il marito, dal viso notarile, precocemente calvo, le copre le spalle. Il cameraman è ultraprofessionalmente imbracato da quella che spero non sia una steady-cam. Ma invece lo è. Qualcosa, girando per queste vie, mi angoscia e mi fa stare teso. E’ come una blanda vibrazione di senso del dovere. Non so cos’è. Poi capisco. E’ Padre Pio. Ci sono statue di Padre Pio, statue in gesso alte come un bambino che compaiono quando scantoni, negli angoli, proditorie e inattese, col palmo benedicente e bucato e quell’espressione inumanamente docile che pare pretenda da te una bontà altrettanto inumana. Arrivo ad una piazzetta vicino a Santa Maria Maggiore. Chiedo ad un gruppo di ragazzine immerse nel dolce far niente che piazza sia questa, ma non me lo sanno dire. Affondano tutte nella timidezza. Di colpo compaiono gli sposi di prima, con l’ampio codazzo di immortalatori professionisti. Il reporter, con la steady-cam in quel modo, noto meglio adesso, sembra Edward mani di forbice. Il fotografo ha intenzione di sfruttare una lama di luce che disegna un sette su un muro per accrescere la potenza della memorabilità del bacio nuziale. Sistema gli sposi sulla lama di luce. Le ragazzine sciamano veloci verso una scaletta dove si siedono compresse per seguire la scena da una posizione favorevole, sgranocchiando schifezze. Alla sposa viene fatta assumere una posa di giubilo innaturale, e il marito si deve spezzare la schiena per baciarla. Si china e la bacia. La prematura calvizie risplende nella luce rosé. Proseguo. E’ un coacervo di sacro e profano. Le abitazioni si mescolano alle chiese, i sagrati ai cortili, in una osmosi infinita. Dalle false colonne sulla facciata di Santa Maria Maggiore sbucano quelle che mi sembrano due arabe fenici. Sugli intonaci ci sono sbrodolature grigie e marroni. Nel rione medievale Junno sagome rutilanti di bambini esplodono sul bianco calcinato color gesso. C’è una promiscuità di porte e di usci. Sarà per questo che gli occhi di questa gente sembra custodire, celare e serbare qualcosa di inconfessabile al tempo stesso privato e collettivo? Bianchi merletti occultano gli interni, da cui provengono voci di donne e pianti infantili di esagerata disperazione e sproporzionata potenza che ti raschiano le orecchie. Arrivo a Vico Stercuzio. Qui c’è una bella macchia di sole, e le rondini garriscono ancora, rincasando. In Largo Dauno la luce ti costringe a una smorfia facciale. I muri bianchi incrementano la forza luminosa del sole che tramonta. Le campane, in alto, si contrappuntano. Laggiù c’è una strada panoramica. Vedo di nuovo la parte nuova del paese. E’ grottesco che abbiano cercato di riprodurre la disposizione a schiera di queste vecchie abitazioni ( i cui tetti, qui dove guardo, fanno una incantevole seghettatura ). C’è qualcosa di schifosamente dozzinale e approssimativo, nelle forme scimmiottanti dei nuovi appartamenti, qualcosa che, nello schifo, tenta pure di fregiarsi di una sorta di deferenza storica. Abbiamo rievocato le vecchie forme, riprodotto e rinnovato i vecchi stilemi architettonici. Ma invece è tutto dissociato, senza nessun legame vivo ed onesto e nuovo con il paesaggio, con la terra, un storpiata imitazione, una merda. Ma forse non c’è più nessun rapporto vivo e simbiotico, in fondo, con questa terra. Sono sulla balaustra. Sotto di me si allungano piccoli orti terrazzati. Lingue rocciose di Gargano si accavallano come sipari. Per chi soffre di vertigini, l’enormità del luogo è rassicurante. Crea effetti graduali. Vedo solo un triangolo di pianura, laggiù, piena di vigne o di ulivi, non so. Il mare continua a confondersi col cielo. E i lembi di terra lontani sfumano impalpabili come un tappeto di sabbia in acque basse e chiare.

Matteo Fulimeni

One Response to “Abbiate pietà di noi.”

  1. Mariateresa scrive:

    Lenzuola bianche stese al sole, ricordo di usanze (non poi così tanto) lontane…

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