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Sembrava Settembre.

Metaponto (MT) – Più tardi, le nuvole si sono compattate, bianche, lucide e blu. E’ piovuto, nel primo pomeriggio. Nel campeggio i colori delle casettine prefabbricate si sono un po’ avviliti. La pioggia ha bagnato i tronchi calcinati del parcheggio. La ghiaia, a terra, si è brunita. Siamo tornati alla spiaggia. Dai marciapiedi si alzava una fragranza dolce e spiacevole. La pioggia evaporava lentamente. Il mare si era gonfiato, e adesso appariva omogeneamente mosso. C’erano ciuffi di materiale rigettato, sulla spiaggia, neri e arruffati. La sabbia era maculata, cosparsa di piccole scaglie umide come una malattia della pelle. Un coleottero vi trascinava le sue zampette posteriori, lasciando una scia. Gli ombrelloni erano tutti chiusi.  La meridiana, sul lungomare, aveva colori slavati, un blu Mirò. Le cose venivano preparate, c’era una rada animazione, negli chalet, blanda, serena, senza ambasce. Dalle staccionate appena riverniciate di bianco veniva un odore prepotente. Ma il cielo era increspato e la luce grigia. Sembrava Settembre. Non c’era un’anima. Che cosa cambiava? Qual’era la piccola quasi inavvertibile differenza fra una vigilia e un congedo?

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Stamattina con C. siamo andati in spiaggia. Il sole era caldo da pesarti addosso, in qualche modo. Nuvole aitanti facevano un argine, a nord, a ranghi non ancora serrati. Passeggiavamo sul lungomare quasi deserto, spalleggiandoci, con gli asciugamani sulle spalle. C’erano villini, vuoti, sulla destra: cartelli di affittasi pendevano ovunque, dai rami degli alberi, nei giardini, dalle ringhiere scrostate dei balconi. Il nitore era così forte, l’aria senza spessore. Gli chalet erano grandi come fortini, simili ad attrazioni da luna park. Eravamo lì. La spiaggia era stretta, montagnosa, con dune scomposte. C. ha osservato la sabbia sotto di lui, chiedendomi di sondarla alla ricerca di aghi ipodermici, ma poi è stato il primo a gettarsi in acqua. Perché abbiamo paura di cose così diverse? L’ho seguito. C. aveva già l’acqua alla cintola. Io esitavo sulla battigia, finemente sabbiosa, dove i piedi affondavano come nel pongo. L’acqua era torbida e fredda. Il mare strano, basso, un’alternanza di quiete e furia. Onde si formavano improvvise, inattese, non troppo lontane, in un punto preciso in cui sospettavo cambiasse il fondale. Onde al bulino, plastiche, cavalloni perfetti. Ci siamo immersi contro le onde, tuffati nelle onde, fatti trascinare dalle onde. Le onde affrontate di schiena, poco sopra il sedere, o prese addosso nella pancia. Le onde attese, quelle giuste. Le onde che ti deludono. Le cattive scelte di tempo. Tutto questo per un po’. Sono uscito per primo, e sulla battima me ne stavo con le mani ai fianchi, con la schiena che si asciugava veloce, fra la poca gente; la luminosità di questo momento lo rendeva chiaramente irripetibile, più degli altri parlava con franchezza. Io ne ero pervaso. C. mi ha raggiunto, rimpiangendo di non avere una macchina fotografica per immortalarmi in quel preciso istante. La mia ombra era netta e nera. Ci siamo stesi sugli asciugamani. Io riflettevo su quanto piccole esperienze così si staccassero dalla loro percezione infantile, adesso. Su quanto avessero uno spazio chiaro e definito, adesso. Non eterno, adesso. Fare il bagno, prendere il sole, stabilire quando uscire dall’acqua, porre fine all’esperienza. Il gesto senza scopo e quindi senza limiti, ha un valore diverso, adesso. Ha un valore e dunque una funzione. Questo era meglio o peggio? Questo era accrescere o ridurre? I nostri polpastrelli non si erano raggrinziti. Sugli asciugamani io e C. abbiamo parlato a lungo. Più tardi, le nuvole si sono compattate, bianche, lucide e blu. E’ piovuto, nel primo pomeriggio. Nel campeggio i colori delle casettine prefabbricate si sono un po’ avviliti. La pioggia ha bagnato i tronchi calcinati del parcheggio. La ghiaia, a terra, si è brunita. Siamo tornati alla spiaggia. Dai marciapiedi si alzava una fragranza dolce e spiacevole. La pioggia evaporava lentamente. Il mare si era gonfiato, e adesso appariva omogeneamente mosso. C’erano ciuffi di materiale rigettato, sulla spiaggia, neri e arruffati. La sabbia era maculata, cosparsa di piccole scaglie umide come una malattia della pelle. Un coleottero vi trascinava le sue zampette posteriori, lasciando una scia. Gli ombrelloni erano tutti chiusi. La meridiana, sul lungomare, aveva colori slavati, un blu Mirò. Le cose venivano preparate, c’era una rada animazione, negli chalet, blanda, serena, senza ambasce. Dalle staccionate appena riverniciate di bianco veniva un odore prepotente. Ma il cielo era increspato e la luce grigia. Sembrava Settembre. Non c’era un’anima. Che cosa cambiava? Qual’era la piccola quasi inavvertibile differenza fra una vigilia e un congedo?

Matteo Fulimeni

 

 

© Giovanni Marrozzini

 

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© Giovanni Marrozzini

 

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