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Giovanni che non c’è.

Santo Stefano di Sessanio (AQ) –  Lasciato l’altipiano, i monti si fanno meno sontuosi. Decrescono progressivamente in cavalloni dalle pendici bombate, gonfi declivi di carta crespa del colore di un vecchio tappeto rigati da stretti solchi erosivi e cosparsi di macchie grigie, muriccioli di pietra o smagliature sassose simili a nuraghi, pendici cosparse di boscaglia scura che si gettano in strette valli dalle linee pendolari, che affondano e risalgono parabolicamente, listate a grano, in strisce sottili e modeste, fino alla china opposta, ripida ma breve, in cima alla quale occhieggiano, nella luce obliqua del tardo pomeriggio, in un lontano borbottio di tuoni, gli alti spogli bastioni affioranti del Gran Sasso, lucenti come un’immobile cascata di carta stagnola, e dove svetta lo scheletro cilindrico a tutela della torre medicea, ridotta ad un tozzo moncone fangoso, dalla quale si dipartono, diramandosi verso il basso, vicoli bianchi, stretti e ciottolosi che digradano in larghe e dolci scalinate, fra pareti sbrecciate di chiara pietra porosa costellate di pesanti portoni sbarrati, coi chiavistelli assicurati da lucchetti scuri e massicci, e volte puntellate di legno chiaro e luminose impalcature dai riflessi argentini tutte snodate attorno alla doratura dei perni, ponteggi dai quali dondolano reti arancioni, fra contrappunti aviari, garruli o circospetti o temibili, un soffio di vento e un frusciare e, sotto i balconi puramente ornamentali che ospitano fioriere sterili ed afflitte, nei canti bui e pesti, cumuli di masserizie intrise di umido che odorano di miele e frutta marcia, cataste di vecchia legna inservibile e enormi cartoni ammorbiditi come biscotti bagnati, senz’altra compagnia che il ronzio di larghe coltri di mosche, o di grosse api  pelose, o del cic-ciac delle ciabatte, in mezzo a affittacamere o agriturismi, le reception in penombra, fino a piazza Medicea con i mansueti, docili quattro cinque turisti accomodati su panchette di legno grezzo e rugoso a smagrire poco a poco rotondi taglieri di formaggi che spandono odori intensi e selvatici tutt’intorno, dove una bambina intraprende una breve corsa sfrenata tagliando la strada a due uomini che a passo veloce s’inoltrano con quattro grandi tortiere tra le braccia in un vicolo che odora dell’odore dolciastro del mangime per gli uccelli, e davanti ai quali corre una bicicletta che scivola velocissima fin quasi alla fine della strada, dove si apre un cortile di ghiaia e ci sono quattro case una accanto all’altra, tutte nel cortile, con balconi e fiori, e sulla soglia di una di queste c’è un gatto bianco arancio pigramente pancia a terra e dentro c’è un tavolo con due caffè appena consumati, e due bicchierini di genziana, un camino, cinque sedie, una tv ed una credenza. Sul vetro della credenza c’è una vecchia foto sfrangiata in toni seppia dei primi anni del secolo, nella quale un padre dai vecchi e biechi baffi profilati del capofamiglia posa accanto alla moglie e ai i suoi otto figli, sui quali incombe. Vestite di lana e di cotone, le donne indossano pettorine di velluto, stretti corsetti, spille e spalline e gonne lunghe e hanno facce dure e mascoline. Tutti i maschi portano il cappello, e quasi tutti hanno fazzoletti bianchi nel taschino del vestito buono. Le due figlie sono relegate ai lati; due dei figli minori giacciono all’indiana, a terra: solo uno dei due ride, mentre quello al centro, nell’ordine della posa richiesta, sembra in realtà volersi sincerare che la grande donna seduta alla quale si aggrappa, e che mostra freddi occhi sgranati, non si sia mossa. Il bambinetto in braccio alla madre porta un abito da battesimo, di canapa o cotone, bianco e a balze. Di certi vestiti femminili si riconosce ancora la trama sottile a lische di pesce. I maschi indossano il gilet perfettamente abbottonato. Tutti fanno in modo di tenere una mano sulla spalla di qualcuno, inducendosi sostegno, ma l’unico sguardo a non sentirsi violato è quello del capofamiglia, indomito per esperienza e quasi divertito dalla soggezione altrui. Non ne soffre suo figlio lì a  sinistra: mento alto, allargandosi il risvolto della giacca, nell’apertura della quale si intravede una catena d’orologio, recita la propria investitura. E’ una foto del 1903. Manca il primogenito. La famiglia Leone è tutta quanta emigrata nelle Americhe.

Matteo Fulimeni

© Giovanni Marrozzini

 

Per gentile concessione di Arnaldo Leone

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