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Sangue e segatura.

Fermo –  Qualche appunto dal circo Armando Orfei dove siamo stati ieri.

Bene, sono le 18.30 e anche se manca mezz’ora all’inizio del primo spettacolo, qui sono molto rilassati. Contribuisce il fatto che non si è ancora visto uno spettatore, ma è comprensibile. E’ comprensibile che non si sia ancora visto uno spettatore, dal momento che ci sono ottantacinque gradi all’ombra. Il Circo è allestito in uno di quei grandi spiazzi con l’erba spelacchiata vicino al mare che di solito vengono usati come parcheggi o spazi per le sagre o i festival della birra. La gente sta evacuando le spiagge appena adesso, poco prima del crepuscolo, e continuerà a farlo fin verso le otto, quando regnerà finalmente un’insperata quiete, una malinconica tregua grigia prima della notte, come una specie di concretissimo vuoto nella stagione, il momento in cui tutti sono costretti a stare almeno un’ora in casa e l’aria è ferma. Quindi adesso risalgono tutti quanti dalle spiagge, attraversando la strada qui davanti – il lungomare – in infradito incollati di sabbia, con asciugamani e sporte piene di roba, supertele luminescenti e ombrelloni sotto le ascelle, montando in macchina demoliti, grondanti e impanati, nonché abbrustoliti, sgommando a tutto gas verso la doccia doposole tonificante: i parcheggi tutt’intorno si svuotano di colpo, tempo un’ora. Vedo da qui la mia macchina sostare in piena e triste solitudine in quello che prima era un lago di lamiere luccicanti dal quale ero sicuro sarebbe stato impossibile trovare il modo di uscire. Io però non sono solo, sono con me i miei amici riminesi scesi direttamente da Rimini sia ieri sera che oggi, la cui discesa e apparizione sulla soglia della sperduta sede del cinefotoclub è stato un vero e proprio coup de theatre davvero galvanizzante per tutti noi ( con tutti noi intendendo G e il sottoscritto ). Sono Filippo, Melany e Diletta. Però ieri sera c’era anche Laura, che saluto. Ciao Laura.

Il tipo che cospicui indizi suggeriscono essere  russo o balcanico o carpatico in completo nero in attesa all’entrata del tendone, pronto a ghermire biglietti, dal verde sguardo timoroso come se lo stessi minacciando e di gentilezza disarmante, ha avallato nel suo lessico stringato la nostra visita al tendone e agli alloggiamenti, e così adesso ci infiliamo in un passaggio fra le transenne e descriviamo un blando cerchio attorno al tendone – dal quale proviene attutita una musica circense – con la distratta curiosità che generalmente ti colpisce alle mostre d’arte, in mezzo ai caravan e alle roulotte e ai container e alle motrici. Eccetto il rapido passaggio di gruppetti di trapeziste dal corpo atletico o di splendide maschere che della divisa indossano solo i pantaloni e girano in canottiere variopinte dalle spalline sottili, tutti gli uomini e le donne del circo sono ancora asserragliati nelle loro casette mobili, e non si vedono mica. L’unica prova a sostegno della loro esistenza sono gli asciugamani bagnati appesi ai tiranti d’acciaio del tendone. Agli animali non è concessa privacy, invece, e occupano spazi aperti i cui confini e le cui caratteristiche variano a seconda di esigenze e, chiaramente, pericolosità. Sotto un grande padiglione secondario a guglia, un elefante non troppo enorme fa un bizzarro, perpetuo movimento oscillatorio su di una piatta e lunga pedana di legno giallo. E’ un po’ quel movimento semiautistico che impegna testa e spalle che capita di vedere nelle discoteche. Dicono, poi, si tratti di un astuto procedimento per abbassare la temperatura corporea. Un elefante costretto a dondolarsi senza tregua per abbassare la temperatura corporea mi sembra l’immagine più adatta ad esprimere il grado di calura disumana che affligge questa sera di luglio. Accanto all’elefante ci sono, parcheggiati nel fieno, uno yak, con la sua nera chioma cadente dalle sfumature blu elettrico e tipo un bisonte con le corna ipertrofiche, le corna più lunghe che abbia mai visto in testa a un animale, in grado di squarciare qualunque cosa di certo. E ci sono le caprette, dai musi sorridenti e le corna aggrovigliate. Ancora oltre si intravedono delle zebre, ma laggiù non ci avventuriamo perché una Donna Del Circo fuoriuscita di colpo da un caravan, una donnona in carne dietro il cui polpaccio si nasconde un Bambino Del Circo, dopo un’iniziale ostilità placata dall’esposizione delle  nostre credenziali ( l’autorizzazione a stare qui, il permesso vero e proprio, non è affatto quello accordatoci dal russo\balcanico\carpatico all’entrata, che vi credete, ma quello concessoci da un signore coi baffetti che si chiama Fiorentino la cui collocazione nelle gerarchie circensi non ci è perfettamente chiara ma sicuramente recita molto in alto, tant’è vero che basta fare il suo nome per assicurarsi una completa libertà di movimento, qui dentro ), la Donna Del Circo ci avvisa, a nostra tutela, dell’esistenza di un temibile Cane Da Guardia Nero Che Morde, e che presumibilmente bazzica, a sua detta, proprio la zona laggiù, intorno alle zebre. La possibilità di incontrare il Cane Da Guardia Nero Che Morde angoscia Diletta, mentre un Carlino con quel suo muso mostruoso disegna guaendo una paio di circonferenze attorno a Filippo che, accasciato a terra, sta cercando di partorire qualche astrusa inquadratura concettuale con la sua vecchia Canon analogica. Più a nord ci sono i cammelli, con le teste spelacchiate e i musi osceni, e sono talmente docili e innocui e retrivi che i confini del loro settore sono un vero e proprio pro forma, dato che constano di due corde e pure lasche. I cammelli sono più laschi ancora, e come altre volte mi è  capitato di notare, quando si buttano su un fianco sembrano vere e proprie carcasse. I cammelli sono animali stanchi. Le gobbe sono così adipose che pendono di qua e di là per il peso. Eppoi ci sono le tigri. Hanno gialli occhi da psicopatiche assassine, con le pupille acuminate affondate nel giallo acido, e fanno avanti e indietro a passo felpato in un altissimo gabbiotto cilindrico a sua volta protetto da transenne che impediscano di avvicinarti con folle incoscienza e offrire in pasto il tuo avambraccio alla tigre solo perché ti sembrava un gattone. Dal gabbiotto cilindrico parte una passerella che finisce poi in quattro cinque stretti alloggiamenti ricavati in un rimorchio con le pareti che si aprono ad ali, e le tigri si trasferiscono dal gabbiotto cilindrico a questi claustrofobici appartamenti e viceversa, mentre al centro del gabbiotto cilindrico c’è una enorme vasca piena d’acqua che non riesco a stabilire se si tratta di un grande, comune abbeveratoio, o di un posto in cui le tigri vanno anche a mettersi in ammollo. L’odore delle tigri mi risulta a lungo indefinibile, è dolce e agro al tempo stesso, e di un’intensità tale da poter essere riprodotta su quella stessa scala soltanto nel caso decidiate di ospitare e contenere in un solo ambiente della vostra casa tipo cinque seicento gatti randagi senza mai aprire le finestre. Poi a un certo punto una tigre che continua ad occuparsi visivamente e in modo sospetto del sottoscritto fa una cosa molto spiacevole, e cioè, forse infastidita o minacciata dalla mia presenza, decide che è il caso di ribadire la propria supremazia territoriale: alza tutta la coda in aria disegnando una chiave di basso e, dopo avermi gratificato con la visione di orifizi e maestosi genitali, passata una rapida, soffocata denotazione la cui origine non citerò qui esplicitamente, urina violentemente verso il sottoscritto, che è costretto a fare un salto indietro per non tornare a casa a raccontare di essersi fatto pisciare addosso da una tigre ( che, dovete ammetterlo, come aneddoto non suona niente male ): getti di urina tiepida e fumante come colpi di mortaio schizzano sul gabbiotto e sulle transenne e atterrano sull’erba bruciacchiata che, bagnata, inizia subito ad odorare intensamente. La piccola lezione umiliante infertami dalla tigre avviene lontano dagli occhi dei miei compagni di esplorazione, che oramai si inoltrano nel tendone, e la cosa in qualche modo mi solleva. E mi è inoltre di sollievo che i miei compagni di esplorazione non abbiano assistito alla scena penosa di me che alzo di ripicca il dito medio e lo rivolgo grugnendo alla tigre spisciacchiante, prima di raggiungerli nell’ombra del telone dalla quale sono stati completamente inghiottiti.         

Era prevedibile che, in queste condizioni di umidità e temperatura, tutto l’ambiente sotto il telone non fosse propriamente paragonabile ad una camera iperbarica. Ma il semplice fatto che  qui non batta il sole supplisce all’altro fatto che tutto l’intorno è chiuso da teloni di plasticaccia affumicata che impregnano l’aria del loro risaputo e caratteristico odore, molto penetrante e un po’ stordente, mescolato com’è a vivaci sfumature di effluvi campestri che vengono dal terreno, più le sventagliate di letame che arrivano dritte dalla zona animali là fuori, ma che, ci penso solo adesso, non abbiamo visto, dal momento che, ci penso solo adesso, gli animali erano tenuti in condizioni in qualche modo dignitose e attente all’igiene, e quindi questo puzzetto di letame ha un che di misterioso perché non possiede un referente visivo. Questo circo è a una sola pista, constato. L’ultimo che ho memoria di aver frequentato ne aveva ben tre, ma, c’è da riconoscere, le due piste laterali stavano lì inutilizzate a fare scena e a permettere di millantare nella pubblicità una grandiosità che poi in effetti non esisteva. No, questo circo è onestamente a una sola pista. Il tendone è rosso scarlatto e non è perfettamente conico, ma sezionato in alto da un ellisse, da cui pendono potenti fari alogeni, alcuni dei quali accesi ad illuminare di un giallo fiacco la pista. Quella specie di zoccolo che è il bordo della pista è tempestato di lampadinotte rosse, spente, e quattro intricati piedritti d’acciaio si levano su a perpendicolo, gonfi di lampade sceniche che sembrano di latta, con le mascherine colorate, e altri quattro pilastri crocicchiati si dipartono invece diagonalmente fino ad incontrare degli strategici rinforzi d’acciaio nel telone, sui quali premono a sostegno con gli apici appuntiti.  Le gradinate stanno tutte intorno. Sono di legno, e sembrano divise in settori. La parte alta delle gradinate presenta seggiolini da stadio di plastica grezza, mentre nell’anello immediatamente sottostante i posti a sedere sono imbottiti e assomigliano più a sedie da ufficio. Poi, adiacenti alla pista, ci sono come delle tribunette d’onore; più che tribunette sono delle specie di box, dove si contano sei sedie in due file da tre, e sono divisi l’uno dall’altro da separé che paiono riprodurre l’usuale profilatura della testiera di un letto, ondulata e coi pomelli. Una cosa così. Il grande sipario è rosso vino, ed è sormontato da una specie di trabeazione il cui fregio propone una serie di cavallini argentati muso contro muso e decorazioni tipo conchiglie o chiocciole o altre forme impenetrabili e puramente estetiche, tutte quante glitterate. Sotto le falde raccolte in due grandi onde rosse e sporgenti orlate d’oro con tanto di nappe si apre una sorta di sottosipario: gli artisti entrano da qui. E’ un velo grigio sottile e quasi trasparente tempestato di paillettes. Qui dentro le musiche o sono folli csárdás ungheresi in due quarti, appropriatamente circensi e splastick, oppure quei piatti e monotoni Jingles similpubblicitari che, personalmente, mi deprimono. Due incredibili trapeziste fanno il giro della pista e laddove sono passate staziona un odore dolcissimo di doposole. Poi tocca a due bambine dai capelli biondo cenere fare la loro rapida apparizione, il tempo di rincorrersi da un’entrata laterale del tendone a quella per il pubblico, alla mia sinistra. Là fuori non c’è più nessuno, nemmeno il ragazzo russo\balcanico\carpatico. Intercettiamo la voce sommessa del bigliettaio che dice ad un uomo dotato di figlioletta appesa al collo di tornare per le nove, cioè al prossimo spettacolo. Facciamo così pure noi, e andiamo a mangiarci una pizza.     

Matteo Fulimeni

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

3 Responses to “Sangue e segatura.”

  1. Filippo scrive:

    Stupenda giornata. Nonostante il caldo asfissiante!! Buon proseguimento, siete mitici!! Un abbraccio affettuoso.

    P.S. Matteo ho appena comprato il libro…..

  2. Laura scrive:

    Ciao a tutti!
    Tanto bello essere stata con voi venerdì sera assieme a Melany e Filippo, quanto dispiaciuta di non essere potuta venire sabato… ma inevitabilmente ero lì con il pensiero.
    Un carissimo abbraccio amici! :-)
    Laura

  3. David scrive:

    Si ha come l’impressione di essere lì con voi, in quel preciso istante; le foto poi sono fantastiche. Bravissimi!

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