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Non c’è nessuno.

Bominaco (AQ) –  Sono quasi sicuro che ci fosse del movimento, fuori, per tutto il tempo della lunga dormita. Qualcuno era impegnato a fare qualcosa che produceva rumori, clangori e boati fastidiosi. Poi c’erano quattro mosche rimaste intrappolate nel camper, planavano e zampettavano solleticando punti ultrasensibili: caviglie, o persino, sfacciatamente, palpebre. Il sonno postprandiale sotto un sole pesante. Né mosche, né rumori, né l’affatto trascurabile elemento dell’ipossigenazione sono valsi da incentivi a ritrovare una piena coscienza. Sospetto che la mancanza d’ossigeno deve averci intorpidito. Sono le sei e quaranta, lo vengo a sapere da G. Detto da G con sentenziosità lapidaria. Per dire che oggi abbiamo mangiato e dormito e nient’altro.  E sono un colabrodo. Sono così zuppo che il sudore non sembra averlo prodotto il mio corpo, pare piuttosto che mi sia piovuto addosso. Usciamo.  Sul piazzale Non. C’è. Nessuno. Forse qualcuno in fondo, su una pensilina, due anziani con le gambe stese languidamente, come se le tenessero ammollo in un catino. Stanno appoggiati a palmo aperto sul ciglio della panchina, spingendo come ginnasti al volteggio. Parlano e si zittiscono al mio passaggio. Voci femminili vengono da dietro un oscuro roseto. Sotto un olmo c’è un tappeto nero di mosche e si alza un sonoro brusio d’alveare. Per le vie del paese. Presenze umane in intercapedini, dietro le imposte, suggerite da braccia o mani. Una scialba meridiana romana su un muro sabbioso. Si aprono begli scenari in cortili abbandonati, all’ombra di gelidi muri di pietra: nell’erba scura crescono ventagli di rose, qua e là: dietro le finestre gli stanzoni in disarmo di una villa, di un bruno giallastro decadente, spogli. Anche qui piccoli vicoli puntellati con armature d’acciaio smaltato. In cima ad una salita c’è un grande orto nel sole dove marito e moglie si dedicano curvi a foglie di lattuga. Il brontolio sordo diffuso nell’aria che si beve è di un aereo che viaggia ad altezze tali da distinguerne ancora la forma. La scocca dell’aereo intercetta il sole e brilla come una stella bianca. Le rondini occupano uno spicchio di cielo, in un piccolo coagulo nero che impegna la vista distinguerlo, così in alto che non le senti garrire. C’è un cane, in un cortile, in fondo a una scalinata. Mi rivolge un abbaio bolso che da la stura ad un’eco di allarmati ululati canini tutt’intorno. Non è una gran minaccia, almeno fin quando non guadagna la strada spalleggiato da un paio di bastardi decisi a non lasciarmi tornare sui miei passi. Infatti non lo faccio, e continuo verso la campagna, e compio il periplo del paese passando accanto a pietre miliari che pietre miliari non sono. Il suono dei grilli è quello dell’accendigas elettrico, e fitte macchie di pulviscolo sono invece moscerini che orbitano impazziti gli uni intorno agli altri. Su una china un cavallo panna e cioccolato alza di scatto la testa, quando mi vede. Ha bottoni neri di mosche lungo il corpo. Le mosche gli si posano sugli occhi lacrimosi, e lui si scuote inutilmente. Il muso rosa si increspa e si flette e si deforma mentre mastica rumorosamente. Sto risalendo, e i campi là sotto sono mezzi rasati. I monti e i campi hanno colori scuri ma scialbi, imbevuti in spessi strati di spettrale umidità. Su una curva c’è un versoio arrugginito infilzato nel terreno, e le balaustre sono grovigli di rovi dalle spine severe. All’altro capo del paese, fra le casupole, vecchi barattoli di vernice tutti stinti, seggiole mutilate e, sulla strada, quel ghiaino estemporaneo tipo calcinacci che scoppietta sotto le suole. Poi c’è un grosso lenzuolo con dei micetti persiani affacciati come putti che pende da una balconata e sbatte nel vento. Un signore è immobile nel suo orto e regge un tubo dell’acqua e innaffia l’orto e mi guarda. E io lo guardo. E lui mi guarda. Giù nel piazzale ecco un autobus, ma si serve del piazzale giusto per fare manovra. E in più è vuoto. Attraverso i finestrini rutila il suole mentre tramonta. So riconoscere il  verso di una quaglia che arriva amplificato dalla valle. Il canto di una quaglia è come un cuore che squittisce.

Matteo Fulimeni

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

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