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Aveva i seni troppi piccoli.

Sassoferrato (AN) – Erano nel drappello che era sfilato lentamente sotto l’arco – c’erano ragazzi e ragazze – ed era stato introdotto  nell’animazione della piazza dal rotolio rasposo delle prime foglie morte sul selciato asciutto di un venerdì di fine agosto, caldo e decadente. Questi ragazzi e ragazze si assestavano nello spazio con quell’imprecisione timorosa di chi non può far reclami perché non ha ancora un’idea precisa delle proprie pretese, e in più teme i ragazzi di qualche anno più grandi. Erano felicemente remissivi. La luce della piazza era blanda e triste, e l’unico bar ancora pieno di gente, malgrado l’euforia fosse come tamponata dall’eccesso di quel caldo che nella sua esuberanza, prometteva di finire. L’allegria delle voci era attutita, e spesso gli occhi di qualcuno s’incantavano lucidi dentro alle linee dei crepitanti vortici che le foglie tracciavano attorno alle gambe degli avventori, graffiando la strada, fra sbuffi caldi. I discorsi, d’altra parte, potevano rapidamente e più volte essere sospesi e ripresi. Il drappello, dunque, si era sistemato ai margini della piccola folla che esondava vociante dal caffè, e nessuno dei suoi componenti osava muoversi in direzioni precise, accontentandosi di disporsi in un piccolo, autarchico e rassicurante cerchio lontano dai tavolini, dal biliardino e dal tavolo da ping-pong, avamposti ancora impresidiabili. Nel cerchio, ragazzi e ragazze parlavano. Loro due erano entrambi nel piccolo cerchio. Lei aveva passato tutto il pomeriggio stesa nell’ombra luminosa della sua camera, alla luce della finestra, sul letto, presa da una noia dalla quale non riusciva, con vergogna, a liberarsi, in maglietta e mutandine, impiegando il tempo a sollevare le gambe nell’aria pesante, a stenderle e  piegarle fino ad accompagnare le ginocchia rotonde ai seni troppo piccoli e restando così, mozzandosi il fiato e contando ogni volta fino a dieci in attesa di una telefonata. Come una bambina, gonfiava comicamente tutte e due le guance e soffiava rabbiosamente fuori l’aria. Quando il telefono aveva squillato lei aveva mascherato il suo languore e si era mostrata sveglia e allegra. Mentre rispondeva alla telefonata stringendo il telefono con la spalla, teneva le braccia stese sulle lenzuola, perfettamente aderenti alle lenzuola, come un povero angelo, e ogni tanto sollevava un braccio e cercava di tenere braccio e mano sempre alla stessa distanza dalle lenzuola, più o meno a tre dita, e, piegando la testa, chiudeva prima l’occhio destro eppoi il sinistro per vedere quanto la mano immobile e tremante e tesa alla stessa distanza dalle lenzuola mutava la sua distanza dalle lenzuola, in apparenza. Disse alla sua amica di sentirsi molto strana, mentre la mano si alzava e si abbassava rimanendo precariamente immobile e la luce del giorno era implacabile anche nell’ombra. Si disse ansiosa di un nuovo anno, e un po’ malinconicamente delusa, senza aggiungere altro, sorprendendosi, forse per la prima volta, a trattenere un segreto confuso e silenzioso anche per lei. Come avvertire una presenza inesprimibile nella stanza che occupiamo da soli. Lei era nel cerchio e aveva i seni troppo piccoli, ma amava i suoi fianchi sottili e il suo sedere ben fatto, le gambe corte ma snelle e dritte, la minuzia di un corpo che sapeva adoperare la grazia delle sue proporzioni per esplodere in piccoli, armoniosi eccessi di bellezza. Sperava di trascinarsi dietro, in quelle occasioni, desideri struggenti dentro a liquidi occhi maschili pieni di spasimi e tristezze,  che nell’ultima estate era diventata sensibilmente brava a decifrare. Durante l’estate aveva letto molto, qualunque cosa le capitasse e ovunque le capitasse, ma ogni volta che chiudeva un volume ne era come cronicamente delusa e si riprometteva di non leggere più nemmeno una riga. Eppure tradiva continuamente questo suo proposito. E nel venerdì sera caldissimo stava in piedi, dentro al cerchio, e alla sua sinistra aveva la sua cara inseparabile amica di una vita, e alla sua destra aveva quell’amico che dall’inizio dell’estate cercava una buona occasione di sfiorare senza riuscirci mai, nemmeno per fortuito caso, paralizzata com’era in maniera inspiegabile e ridicola. Lui aveva passato il pomeriggio a liberare lo scantinato di un vecchio zio che era uno di quei vecchi zii che hanno vissuto molto in campagna e ora presentano, sul volto, quella strana, indurita, crostificata sebosità brunastra che, unita ad una certa dura freddezza, era, per certi versi, capace di suscitare una forte diffidenza emotiva persino nei familiari più prossimi, e lui l’aveva aiutato silenziosamente a liberare lo scantinato impacchettando umide masserizie e caricando tutto quanto, poco alla volta e con leggero affanno, su un ape scassato, facendo avanti e indietro sotto a un sole di pietra. Era un bravo ragazzo, perciò si era vergognato di provare, nel corso di quel lavoro, i residui di quella infantile vergogna con la quale i bambini partecipano alle attività presiedute da una persona molto anziana. E in più, come inspiegabilmente gli capitava da qualche mese almeno, ogni volta che si sforzava di essere pratico, non poteva fare a meno di cadere in una torpida e profonda contemplazione simile alla catatonia. Fissava a lungo un punto davanti a sé, o il fulcro delle sue attività, come se contenessero uno strato ulteriore, più profondo e onesto e prezioso, che però restava inarticolato, muto, e lui finiva per distrarsi ed essere rimproverato rimproverandosi per essersi distratto, per essere stato rimproverato e per non poter addurre valide spiegazioni a quell’assurda catatonia che, sebbene possedesse i vaghi contorni di una cosa legittima e importante, una cosa che valeva tutte le sue attenzioni mentali, era così vuota, informe, oscuramente retratta nel puro e incomunicabile sentimento che alla fine si sentiva un coglione. Lui e lei nel cerchio erano molto vicini, si spalleggiavano quasi, ma, in maniera più o meno cosciente, evitavano di sfiorarsi. Anche se era molto timido, lui sapeva di essere in grado – teoricamente – di toccare, sfiorare, agguantare, artigliare, spingere, o carezzare tutte le persone di questo mondo, ma non lei. Lei, anche se era molto allegra, si sentiva criticamente prigioniera di questa sua debolezza di non potersi permettere di mostrare debolezze ( anche se, all’origine, questo suo comportamento non era affatto sclerotico e inautentico come adesso lo sentiva ), e si rivolgeva, nel cerchio, a tutti i componenti del cerchio con un’attenzione drogata, frizzante, scattante, anfetaminica, ma soffriva le pene dell’inferno perché non riusciva a fare altrettanto con lui, sapendo, allo stesso tempo, che il fatto di non farlo con lui era una forma, oltre che di timore, di rispetto nei suoi confronti, e significava non volerlo coinvolgere nella teatralità spicciola che dedicava a tutti gli altri componenti del cerchio – tranne che a lui – ormai fatalmente preoccupata di rimanere prigioniera della sua stessa recita ( e che lui non capisse quanto in realtà lei soffrisse di non poter essere euforica con lui volendo in realtà non essere affatto euforica con lui e non sapendo bene cosa volesse essere con lui, ma voleva, di questo era sicura, sfiorarlo ). Lui, che indossava una lunga anodina polo verde scuro e un paio di Jeans vecchio modello  sbiaditi che probabilmente gli venivano dal fratello più grande, nei quali le sue gambe molto magre e lunghe si perdevano, aveva quel tipo di viso non troppo bello che sembra sempre crucciato da un pensiero, e questo fatto lo escludeva dalla conversazione del cerchio almeno quanto lo proteggeva ( perché non lo interpellavano mai ) impedendogli di sbilanciarsi in giochi d’opinione di cui stentava ad interessarsi e nei quali difficilmente si destreggiava, finendo così per ridurre i suoi contributi alla conversazione a rapidi segnali morse monosillabici e neanche troppo chiari, che lei ascoltava con una simpatia dolorosa e curiosa e avrebbe voluto accompagnare con uno di quegli intensi sguardi comprensivi che finiscono, all’angolo dell’occhio di un timido interlocutore, per significare moltissimo ( ma non lo faceva, convinta che la cosa, allo stesso tempo, avrebbe potuto irritarlo). Ma oltre che a sfiorarsi, non riuscivano nemmeno a guardarsi per più di qualche secondo. Prima o poi uno dei due distoglieva lo sguardo, imponendosi orgogliosamente di non chinare il viso: un gesto inequivocabile che nessuno dei due sentiva di potersi permettere. Allora optavano per una improvvisa distrazione che scalzasse la vista dell’altro, e molto spesso accompagnavano questa menzogna con una crudele espressione di sufficienza ( dovendo nascondere emozioni molto strane e forti, essi esasperavano i tratti dei loro contrari ) e sia l’uno che l’altra pensavano ad una freddezza e ad un astio incomprensibili, per i quali sia l’uno che l’altra si sentivano tremendamente in colpa. E nel cerchio lei vestiva abiti che ancora raccontavano le premure di una madre molto amata, e solo le lingue delle scarpe, due coloratissime adidas consumate, sollevate in modo provocatorio, annunciavano un prossimo, burrascoso cambiamento. Questo particolare fu notato da lui con meravigliato disprezzo: ciò che c’era di cruciale in lei e nell’impossibilità di sfiorarla gli doleva come una ferita proprio per via di quell’inevitabile cambiamento al quale, come le altre del cerchio, lei andava incontro. Sentiva dentro di sé il desiderio animale di fermarla in tempo,  ma non sapeva né cosa né come fare, e la pazienza alla quale si sottometteva aveva qualcosa di ferocemente artificioso, e, complessivamente, si faceva quasi paura. La stesso pensiero, quasi nello stesso istante, trapassò la coscienza di lei, quando, ritrovandosi a stringere le spalle della sua inseparabile amica di una vita, scivolando ad euforici tentoni ( troppo euforici ) fino alla sua  piccola mano tozza e morbida di inseparabile amica di una vita, questo rapido gesto che da anni continuava a sancire una risaputa e pubblica intimità, lei, nel caldissimo venerdì sera, sotto la nebbiosa cappa delle cupe vampe arancio della piazza, capì di non provare più niente di niente per lei, se non la segreta vergogna di aver ridotto la sua inseparabile amica di una vita ad un misero surrogato del suo desiderio di abbracciare lui, che al segnale di qualcuno che nel cerchio,  per via di quel che doveva essere un taciuto accordo, possedeva più autorità di chiunque altro nel cerchio, al segnale che invitava tutti ad entrare nel bar, si mosse scattando  allontanandosi da lei come se non aspettasse altro che sfuggire alla sua vicinanza, manipolando nevroticamente un piccolo bottone finto avorio della sua anodina lunga polo verde scuro per dimostrarsi disinvolto e contemporaneamente pensando a quanto fosse assurdo che lo stesse facendo, che si stesse allontanando da lei, e che volesse dimostrare che non gli importasse, quando tutto ciò che desiderava era averla vicina, e a quante energie impiegasse per compiere un atto che gli piaceva definire “contro natura” e di come le sue emozioni e la sua testa abitassero mondi distanti e inavvicinabili, che si parlavano senza ascoltarsi né capirsi, un po’ come quella sua peculiare catatonia senza linguaggio; e mentre lui si allontanava, lei, china sulla spalla dell’amica, triste fin quasi alle lacrime ma senza darlo a vedere,  socchiudeva prima un occhio e poi l’altro, e lui mutava la sua distanza da lei, in apparenza, avvicinandosi ( mentre la piccola folla lo risucchiava ). Così, come per tutte quelle cose molto belle a cui si rinuncia perchè il primo passo costa troppa fatica, fra assurdi e muti equivoci, come qualcuno direbbe, il loro amore si consumava.      

Matteo Fulimeni

© Giovanni Marrozzini

2 Responses to “Aveva i seni troppi piccoli.”

  1. daniela scrive:

    …finale molto poetico.. mi piace l’idea che il loro amore viva e si consumi anche a loro insaputa, come un’entità a sè stante ma nutrita dai loro desideri delicatamente nascosti.
    …però che peccato…quanti rimpianti e malinconia in un desiderio maldestramente negato!

  2. Melany scrive:

    Incantata.

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