copertina_ALB1401

Bella come sua madre.

Campobasso –  Fu il secondo giorno dopo il funerale di sua madre che andò a bussare piangendo alla baracca di Adapè perché era assolutamente sicura di essere diventata completamente cieca e per sempre. Non vedeva più niente. Isabelle aveva cinque anni, due occhi spaventosamente grandi e verdi, e da due giorni sua madre era morta e così era più o meno sola a questo mondo. Suo padre non c’era mai stato. Non riusciva a non pensare alla veglia e a Szabà e le altre che, mentre sua madre non muoveva più un muscolo né sorrideva sul piccolo letto con la coperta cremisi orlata d’oro di sua madre e sua nonna prima di lei, non facevano che ripeterle che sarebbe diventata la donna più bella del mondo. Lo gridavano quasi, patetiche e come rabbiose, con i colli granulosi delle galline e occhi da cui colavano lacrime nere. Lei le guardava e annuiva, sedeva su una panchetta e dondolava i piccoli talloni nudi nell’aria pesante e guardava sua madre, pallida e immobile, senza che le venisse da piangere. L’avevano intimorita e allora faceva di si con la testa. “Bella come tua madre” – sospiravano. Sincopavano: “Più bella”. Adapè, che invece  non aveva detto niente, ed era l’unica contro la quale la sua mamma morta non aveva mai usato vocaboli che poi le intimava di non usare, in disparte ( e non pregava nemmeno ) le era sembrata sincera. Così, quando svegliandosi nel suo lettino ogni cosa rimase buia, a tentoni attraversò quasi tutto l’accampamento nella mattina chiara e ventosa, non si sa come, con le mani protese come a mosca cieca ( infatti era cieca ). Si sentivano le tetre e pesanti catene dei cani tendersi, strofinare la sabbia e cigolare: i cani si avventavano rinculando contro i visi scuri e sbruffoni del ragazzetti sistemati carponi all’estremità del raggio delle catene, ringhiavano e guaivano (cani e ragazzi), sollevando densi e luminosi polveroni, nel chiarore. Questo non poté vederlo, mentre avanzava con passi ubriachi, ma era uno spettacolo risaputo. I ragazzetti erano incredibilmente stupidi. Adapè, dura e rinsecchita, non voleva mai essere disturbata. Isabelle bussò alla sua porta piangendo e il concetto fu ribadito. “Ma sono cieca!” – frignò lei più volte, battendo melodrammaticamente i due piccoli pugni contro il legno rancido e scivolando in ginocchio, stremata. L’uscio si aprì faticosamente ( Isabelle, inerte, lo bloccava ) e Adapè la raccolse dichiarando finita la farsa. Lasciò tre patate che stava pelando ammollo mezze pelate e poligonali in un bacile e dopo averla fatta stendere sul suo divano rattoppato le fece colare due tuorli d’uovo sopra gli occhi chiusi. Che non andavano riaperti per due giorni. Isabelle si disgustò. Adapè era molto furba. Poi Isabelle volle che anche Adapè si esprimesse circa il suo futuro. Adapè ci pensò un attimo prima di dire, non si sa in che tono: “Sarai proprio piena d’amore” – e riprese a pelare patate, vegliando sulla bambina finché non riaprì gli occhi per scoprire con euforia di vedere di nuovo tutto, colorato e perfettamente a fuoco. Allora Adapè, compiaciuta, pensò bene di venderla ad un ricco industriale che aveva tre figli maschi e da sempre, e inutilmente, desiderava una femmina. Un uomo molto formale e dall’età indefinibile venne a prendere Isabelle una mattina blu di bruma e strinse la sua piccola mano dentro alla sua grande mano, con una stretta nobile e soave, e Adapè, sfogliando svergognatamente la sua mazzetta, osservò Isabelle salire su un’auto lucida dai finestrini affumicati in cima alla spallata, che presto partì fumando, e Isabelle guardò la capanna di Adapè e le altre capanne rimpicciolirsi pian piano e per sempre, mentre i ragazzetti, irrimediabilmente stupidi, desistevano poco alla volta dall’inseguire l’auto, ansimando e vomitando, e Isabelle li salutava con la mano, senza capire che tono dare al suo saluto. Nessuno ci capiva niente, e tutti sembravano felici o infelici per i motivi più impropri. Le piccole braccia scure degli amici non smisero di sventolare. Quando arrivò alla sua nuova casa, con un grande e verde parco tutt’attorno, le fu fatto un bagno. La stessa signora arcigna, taciturna e cespugliosa che la lavò con una perizia quasi veterinaria, l’accompagnò nello studio di quello che, staccando epicamente gli occhi dalle scartoffie, avvicinandosi a lenti, solenni, sentimentali passi al suo titubante corpicino di orfana, la strinse leggermente, si piegò su di lei, le baciò la fronte e dichiarò, muovendo la sua folta mandibola: “Io ti ho tanto desiderata e da adesso sono tuo padre”. Sorrise come una scimmia. Isabelle, impietosita, sospirò: “Va bene”. La casa era vasta e fresca, piena di saloni, vasi, dipinti, librerie, strumenti musicali e pavimenti lustri, con le tende bianche che veleggiavano ingrassate dal vento davanti alle alte porte finestre che si aprivano sulle balconate a scacchi sopra il  giardino e dopo, il parco, dove c’era una fontana scheggiata con un poseidone, e su tutto il parco, d’inverno, scendeva una nebbia livida e spettrale e si sentivano le grida agghiaccianti dei gatti che facevano le ammucchiate. Isabelle apprese, nel corso degli anni, il modo di nascondersi in posti incredibili, di eseguire furti culinari svolazzando nelle cucine alle spalle degli ignari cuochi strozzati dal fumo delle pentole, di usare le finestre al posto delle porte per le sue sortite più segrete. Divenne l’oggetto del combattuto e torbido studio dei suoi tre fratelli acquisiti, con i quali, gradualmente, condivise il brivido di profondi ed illeciti turbamenti. Davide, dagli occhi ambrati, non avevano ancora otto anni, volle che lei presenziasse, forse per alleviare il senso di colpa, alla segreta visione, dalla porta socchiusa, delle giunoniche e pallide natiche di sua madre che si calavano nell’acqua tiepida della vasca da bagno. Lo schiocco sottile che l’immobile, piallato, piombaceo pelo dell’acqua produsse contro le natiche grosse e sode di sua madre che si immergeva. I grossi seni cadenti e scivolosi che le toccavano la piega del ventre. Gli occhi ambrati di Davide che si riempivano del nero della pupilla dilatatissimo. Fra gli otto e i dieci anni, durante i pezzi a quattro mani, Emanuele approfittava delle frequenti pause da minzione di un professore pianista senilmente confuso e terribilmente incontinente per stamparle improvvisi e rapaci baci sulla morbida guancia sinistra, a cui seguiva sempre un ignifugo, movimentato disimpegno musicale, con le lezioni che finivano per diventare melodiosi contrappunti alle sue pudiche avances; e dai dieci ai tredici anni si dedicò all’esplorazione, più ardimentosa e minuziosa, con la  mano affusolata del giovane pianista, di cosa ci fosse alla fine delle gambe, mentre lei rimaneva impietrita e premeva con debole languore dei tasti a caso e sorrideva e ripeteva con la voce che tremava che non c’era proprio niente, alla fine delle gambe. E dopo si trovò una ragazza, e di lei raccontava a Isabelle tutto quello che c’era da raccontare. E quando ormai, a sedici anni, era più che bella e fatalmente matura, pronta per entrare nel fuoco di una febbrile giovinezza, e non poteva muovere un muscolo senza causare lancinanti scompensi nel corpo e nell’anima degli uomini di tutte le età, che al suo passaggio si accasciavano dolenti e con gli amici fingevano di avere infarti fatali, dopo averla quasi del tutto ignorata nel corso di una tormentata adolescenza, Daniele, il più grande dei tre, prestante, tennista, coi capelli sempre bagnati e fidanzato plurimo, scatenò una ostinata offensiva diplomatica che si svolse perlopiù nei corridoi e nelle stanze che situazioni socialmente imbarazzanti lasciavano momentaneamente vuoti e silenziosi e dove, in un attimo di inaspettata intimità,ma con l’ansia della flagranza, Daniele l’abbrancava col suo braccio ipertrofico e gli sussurrava delle cose e con il suo braccio più femmineo le scostava i capelli, e alla fine Isabelle cedette e gli spiegò certi dettagli della sua ben rodata abilità di muoversi per tetti e finestre e una notte incredibilmente calda aspettò nuda sotto le lenzuola che lui si calasse goffamente dalla finestra, pallido sotto la luna, e mentre lui si toglieva le scarpe col fiato già corto, superando un imbarazzo a cui la obbligava la sua prima, vera, inaspettata, ma attesa intimità, Isabelle lo implorò di non farle troppo male. Lui l’ascoltò confusamente, e mentre l’unica possibile implicazione gli si chiariva a mano a mano nel cervello fumoso, incespicò nei pantaloni e crollò con un tonfo secco sul pavimento, ai piedi del letto. Col solo suono della sua caduta. Senza dire più niente. Lei si sporse appena,  cercandolo, coperta fino alle clavicole. Volle sapere come stava. “Solo un po’ male” – bisbigliò dal fondo nero della stanza. La segretezza del menage, a quanto pare, non fu esattamente blindata, e maldicenze e invidie iniziarono a muoversi negli eloquenti abissi degli sguardi obliqui degli occhietti sospettosi di molti, e si fecero reticenze accompagnate dal gorgogliare del brodo di cappone portato alle labbra su cucchiai d’argento nelle disgustose cene ufficiali, eppoi si passò alle delazioni fratricide e a una mattina in cui, dopo una colazione solitaria con pane e burro nella sala da pranzo incolore, tra le occhiate ostili dei domestici che scuotevano oltraggiati le stoviglie, Isabelle si trovò ad origliare il dibattimento familiare circa il suo futuro che si svolgeva dietro una stanza chiusa. Alla fine della riunione la porta fu spalancata, e il suo patrigno, sputando nel corridoio, con sullo sfondo i suoi meschini fratellastri con la loro giunonica madre, le si avvicinò alla stessa patetica maniera di undici anni prima, con la barba scimmiesca molto più bianca, la strinse leggermente, le baciò la fronte e prima che aprisse bocca Isabelle  aveva già sospirato un arrendevole e pietoso “Va bene” e stava già trascinando, ma più che altro ne veniva trascinata, la sua enorme valigia nel cortile odoroso di resina di cipresso di un austero collegio femminile, sotto una luce scialba, seguendo faticosamente la sagoma nera di una suorina che le faceva strada a piccoli passi sul ghiaino scoppiettante, senza voltarsi mai. Nel collegio apprese i rudimenti di una perfetta teatralità, lesse con voluttà i testi delle mistiche cristiane, sentì quanto fosse carnale la preghiera e sviluppò un’amicizia sensuale per la ragazza più brava del coro, una soprano dal viso infantile, dalla voce angelica e con  piccole gote sempre rosse screziate di capillari su una pelle di bianchezza marmorea, nel letto della quale, durante le lunghe, tombali e cupe notti dei dormitori, si infilava trepidante per parlare  dei cantanti  e degli attori dai conturbanti lineamenti delinquenziali, in un morbido viluppo di gambe nude e pigiamini di velluto, scandalizzando l’insonnia delle educande. Si chiamava Beatrice e soffriva di una forma estremamente dinamica di sonnambulismo, per via del quale le suore applicavano i più creativi metodi di prevenzione panoptici, fatti di cancelli e chiavistelli, guardiane e vedette. Ma l’avvento di una feroce epidemia di morbillo stordì l’intero collegio con l’inaudita violenza dei suoi sintomi, e una notte che tutte gravavano sotto una pesante cappa di febbre e malumori intestinali bastò a scalfire  l’organizzato ed efficiente sistema preventivo, e a far si che, nella luce spettrale del mattino, la giovane soprano i cui eccessi sensuali venivano tollerati in virtù della sua voce angelica senza eguali, fosse rinvenuta sotto forma di promettente cantante morta spiaccicata, spalmata sul freddo pavimento di marmo del pianterreno dopo un volo molto poco onirico di almeno quattro piani giù nella tromba delle scale del vasto, silenzioso collegio. Le suore non vollero che le educande vedessero il corpo, per risparmiar loro un trauma. La famiglia, sconvolta e indignata, esigette funerali privati.  L’ultimo ricordo che Isabelle e le altre educande ebbero di Beatrice fu una macchia di segatura scarlatta che veniva rimossa da una ramazza. Isabelle conobbe la sua prima e onesta disperazione, che purtroppo, anche non volendo, passò con la stessa rapidità con cui l’autunno si gettava in un altro dei tanti rigidi inverni. Nella nuova città, dove era molto più comune, vide la neve svolazzare sui tetti per la prima volta in vita sua. Tutte le sere, durante le prove del coro, accendeva nella grande chiesa fredda un cero alla memoria di Beatrice; prendeva lezioni di organo da un vecchio sagrestano azzimato dal sorriso molto triste a cui voleva bene come a un nonno e cominciò, più o meno consciamente, a colmare la distanza da un giovanotto dotato di un viso al tempo stesso malinconico, annoiato, disgustato e pienamente a proprio agio, con occhi come fessure e palpebre come guaine, i movimenti lenti e armoniosi e gli abiti che odoravano di tabacco che tutte le sere si sedeva in fondo alla navata e seguiva con una fluida concentrazione le prove del coro e alla fine usciva pensieroso arrotolandosi una sigaretta senza farsi il segno della croce. Scriveva canzoni, e non sorrideva mai. Il loro punto d’incontro, intorno a gennaio, fu a metà navata. Con l’aiuto di elaborati sotterfugi inganna-suore, a febbraio andavano al cinema alle dieci di sera, scantonavano in vicoli bui e  si baciavano  sui marciapiedi bagnati, davanti ai manifesti strappati, sotto la luce dei lampioni. E a marzo lei era completamente innamorata e aveva lasciato per sempre il collegio e viveva insieme a Marcel che scriveva canzoni in un appartamento al quarto piano di uno spoglio condominio in centro, e c’erano un basso letto matrimoniale sempre da rifare, un tavolo, una cucina, due finestre dal vetro sottile, un divano di rigattiere, un grammofono, dischi dappertutto, una brutta moquette marroncino su cui cresceva la muffa che non lavavano mai e sulla quale si muovevano a piedi nudi; e Isabelle gli cuoceva le uova al tegamino che lui consumava a letto, e lui usava la sua pancia nuda come scrittoio, gualciva e appallottolava i fogli, non ritrovava mai cose preziosissime, non la coinvolgeva mai abbastanza nei suoi piccoli trionfi creativi e certe giornate facevano solo l’amore, e mangiavano poco, lavoravano meno, e ogni tanto, quand’erano tutti e due solo in mutande, lui si accendeva una sigaretta e le faceva ballare Padam Padam pestandole apposta i dorsi dei piedi magri, bianchi e venosi, abbracciandola come un ubriaco e schiacciando la guancia malrasata contro la sua piccola tempia ondulata, col calore incendiario della sigaretta stretta nella bocca carnosa che aleggiava a due centimetri dalla nuca di Isabelle, lui che anche in quelle occasioni rimaneva misteriosamente serio, la fragile finestra che tremava quando i grossisti accostavano con i motori ancora accesi, lui che fissava un punto lontanissimo oltre il grigio cielo cittadino che pesava sui cornicioni, i piccioni gonfi e accovacciati, la pioggia discreta e intermittente, e Isabelle che strizzava gli occhi e si lasciava portare, e pensava che fosse fondamentale non smettere mai di ballare.                

Matteo Fulimeni

© Giovanni Marrozzini

3 Responses to “Bella come sua madre.”

  1. Cinzia scrive:

    Incantata.

  2. Mariapia scrive:

    Struggente vissuto di una gitana da una vita tormentata e apparentemente solitaria, abile a trasformare il “dolore” in “amore”. Capace di adattarsi a tutte le condizioni, a tutti gli ambienti, a tutti quanti condividono parte della sua vita. Dotata di una connaturata sensualità languidamente innocente, nonché di una misteriosa e carnale beltà, è destinata inconsapevolmente, come tutte le femmine, a “causare lancinanti scompensi nel corpo e nell’anima degli uomini di tutte le età”. Favorita dall’innata attitudine a donare AMORE vive la sua esistenza in funzione dei suoi sentimenti. Si lascia semplicemente “vivere” seguendo il corso degli eventi e fidandosi del suo istinto, ma capendo che è fondamentale “non smettere mai di ballare”.

  3. Antonello scrive:

    Matteo sei un grande !!!!!!!!!!!!!!!!!

Lascia un commento