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Lupus in fabula.

Murlo (SI) –  Ci sono tre personaggi mediocri in tre momenti ordinari.

Il primo è un contabile di cinquantadue anni, taciturno, corretto ed efficiente, totalmente affidabile, che dimostra più anni di quelli che ha, conosce i segreti di tutti e non parla mai del suo privato. Il contabile sta davanti a un gelido finestrone nella sala d’attesa del reparto amministrazione dell’azienda farmaceutica, al quarto piano, durante una pausa caffè. Sopra di lui spira l’aria condizionata. Osserva con piccoli occhi infelici, muovendo i baffetti, la conversazione animata e cameratesca che si svolge sotto di lui, nel cortile, tra tre suoi giovani colleghi. Gli svolazzi delle giacche, le convulse coreografie delle fresche mani virili, i follicoli mandibolari che sprizzano dopobarba. E in un angolo preciso dell’erba sporca del cortile è sicuro di riconoscere i lineamenti di un satiro. Vede il corpo del satiro agitarsi sopra un arreso letto di pallida carne di fanciulla, su un tappeto di more selvatiche, nella radura di un bosco autunnale, al tramonto. Poi, di sotto in su, vede materializzarsi quindici fiaccole crepitanti lungo il contorno di un cerchio scuro, nella notte, portate da quindici uomini barbuti che gridano, le cui barbe oscillano e si allungano, alla maniera del fuoco, nello stesso vento che fa vorticare i galletti sui tetti delle locande. E dal fondo del cerchio, con agitazione, le guarda tutte. Vede il satiro prigioniero in un vecchio fienile e incatenato, con gli occhi cavati, al cui posto stanno due lucidi specchi. Ogni volta che la porta del fienile si spalanca, il satiro inizia a trottare con gli zoccoli, per il timore di essere macellato. Batte gli zoccoli sul fieno come martelli, il fiato gli esplode dalla bocca. Allora, incoraggiata dal padre, la fanciulla, al cui profumo il respiro del satiro si fa più lento e sfiata caldo dalle narici, si avvicina al viso del satiro per specchiarsi negli occhi del suo carnefice, ogni giorno per settimane e per mesi. Una mattina livida, nei lucidi specchi istoriati di sangue rappreso, la fanciulla smette finalmente di avere paura e si sente di nuovo bellissima. Allora, incoraggiata dal padre, impugna una roncola e si china su di lui.

Il secondo è una donna matura, ancora bellissima, sostenuta ma sacrificata, coi capelli biondi venati di grigio e gli occhi un po’ glauchi e forse stanchi, seduta assieme ai suoi figli su un lungo asciugamano in un parco fluviale, durante il picnic di una gita fuoriporta. E’ il tipo di donna che nel corso delle visite delle sue amiche, mentre in cucina dà vita ad una colorata composizione di biscotti da the su un dozzinale vassoio finto argento ( i biscotti sono reperti di una vecchia degenza di suo marito per una violenta cistite), parlando del più e del meno esistenziale, alza il tono della voce in modo che le amiche in soggiorno sentano forte e chiaro – senza poterla vedere in faccia – che la sua famiglia è la-sua-gioia-più-grande. Ora è semisdraiata sul lungo asciugamano, con accanto i suoi figli, e suo marito è lontano che chiacchiera con un trascurabile conoscente e incrocia ordinatamente le braccia e si guarda le scarpe e annuisce con maturità. La donna sta estrapolando un fettina sudaticcia di prosciutto cotto da una vaschetta sottovuoto trasparente e sta per calarla in due tre pieghe sontuose sul panino al latte di suo figlio che ha fame e la fissa con la delega sgranata e ottusa dell’infanzia, quando, negli oscuri recessi di una siepe, la donna è certissima di riconoscere la Regina di Saba, addobbata di ciondoli e sottogola, che sgroppa bronzea da una mansueta mula di tre metri, scivolandole su un fianco vellutato. Seguita da un corteo iridescente sul quale dominano cento elefanti bianchi e bardati, due anelli di ferro le stringono le caviglie, e un quartetto di nani scalzi, dai piedi sporchi, reggono in spalla le sue catene, ghignando. La donna vede la Regina di Saba salire regalmente i venticinque gradini di alabastro di un grande tempio, mentre su ognuno dei gradini venticinque magrissimi etiopi soffiano nelle buccine e dal cielo piovono porpore e la gente si affaccia applaudendo ai balconi di marmo. La vede sfilare nella navata del tempio maestoso, fra due lunghissime e ricche tavolate occupate da soli uomini pronti alla gozzoviglia,  e sedere su un alto trono chiuso da un’enorme gabbia dorata. Attorniata dai quattro nani carcerieri e da una mesta servetta che sventola una delicata piuma di pavone, chiusa nella sua gabbia come d’uccello preistorico, con un gesto triste ed eloquente, che è una specie di imposizione delle mani, inaugura la profanazione del tempio. Tutti quanti gli uomini si avventano grugnendo sui floridi e fumanti vassoi luculliani.

Il terzo è un dongiovanni incallito; falso, trito e scostante, affascinante senza essere bello, ha appena affrontato i venti minuti di buona creanza che seguono il coito con la sua ultima preda, una donna ingenua che vuole sembrare fatale e che ora lui ha giustamente punito, e, riempiti di teatrali languori e inventive bugie, dentro alle quali, visto che lei tentava timidamente di inserire nell’amena conversazione piccoli barlumi di un pianificato futuro a due, lui ha creduto bene di inventarsi un lavoro di steward che lo terrebbe lontano e non gli permetterebbe di amarla come lei meriterebbe, si può finalmente alzare dal letto senza che la cosa l’offenda o sembri affrettata, ed ecco che il dongiovanni, seguendo le indicazioni di lei, che nel letto resta distesa osservando il fumo uscirgli di bocca cercando di evitare che l’aria pensosa che ormai l’attanaglia rovini il momento, seguendo le sue indicazioni, attraversa completamente nudo, per un torbido, inspiegabile dispregio, i corridoi della sua casa, dimenticando presto le indicazioni di lei ( a cui aveva prestato un ascolto più che superficiale ), e invece che del bagno apre la porta di uno sgabuzzino. Proprio lì, nel sedimentato, fumoso e oscuro tramestio, è sicuro di riconoscere la figura di un vecchio abate. Vede il vecchio abate nella cella del suo monastero, una scarna cella colma della luce giallina di una mattina nevosa di un rigido febbraio. Dalla finestra viene il trottare di un carro, e nel cielo bianco gracchiano i corvi. E’ scosso da un continuo tremore, lo sguardo perduto nella crepa di un muro. La sera prima, dopo la compieta, solo nella sua cella, si è masturbato e ha macchiato il saio. Sconvolto, si è poi addormentato. Ma questa fredda mattina non sa darsi pace, e muove gli occhi dal cuoio del flagello al crocifisso, e naviga nel mare tempestoso di una buia, inarticolata crisi di coscienza. Nel chiuso della cella, ascolta venire, dal corridoio cimiteriale, i sommessi, colpevoli guaiti dei suoi confratelli intenti alla fustigazione e, dopo una lunga esitazione, si alza dal suo lettino e si muove verso la finestra con uno sconforto che appare solenne: dietro al vetro screziato la luce lo abbaglia.

Il contabile, la madre e il dongiovanni, sorpresi dall’improvvisa epifania, restano per un po’ in una fissità sbalordita, come se fossero sull’orlo di una decisione fatale. Poi, scuotendosi, ritornano a fare ciò che stanno facendo. Il contabile offre un caffè alla collega avvenente alla quale rivolge ogni volta un falso sorriso paterno che vuol dire che si può fidare ciecamente di lui. La madre batte col palmo della mano sulla schiena del torpido figlio che si strozza con il panino al prosciutto, chiedendosi se non sia necessario, per una perfetta madre, conoscere i rudimenti della rianimazione. Il dongiovanni transita di nuovo davanti alla soglia della camera da letto. Lei, presa da una pericolosa sicurezza, dichiara avventata che lo amerebbe lo stesso. Lui le rivolge un lento, compiuto sorriso che non significa niente, poi, trovato il bagno, sfoga una violenta dissenteria.

Matteo Fulimeni

 

 

© Giovanni Marrozzini

2 Responses to “Lupus in fabula.”

  1. Lazzara scrive:

    letto tutto d’un fiato e ogni volta non vedevo l’ora di scoprire cosa sarebbe apparso…

  2. Filippo scrive:

    Grazie, ancora una volta Matteo e Giovanni…
    …a presto

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