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Divergenze parallele.

Fermo – Palazzo Dei Priori –  Sono contento di essere praticamente un naive, quando vado alle mostre, perché mi escludo da solo dalle interpretazioni più equivoche e dai suggerimenti che valgono come alibi. E’ un atteggiamento un po’ ingenuo, per niente postmoderno, ma mi permette di riflettere sul grado di aderenza fra il linguaggio critico e quello artistico e un sacco di altre cose, e mi permette di farlo solo dopo molto tempo passato nell’ambiente alla ricerca di una mia chiave per aprire un discorso. Che però non sarà prolisso. Si può entrare nel tema delle divergenze fra Licini e Morandi nella maniera più accademica e rassicurante, quasi mondana, adagiandosi dentro scelte di corrente e relative polemiche. Per quel poco che ho sperimentato, si tratta della scorante propedeutica del professore di storia dell’arte, secondo il quale l’orizzonte storico deve essere anteposto alla fruizione – questa parola astringente – dell’opera, per diventare uno strumento di interpretazione. Un metodo che a lezione mi uccideva e indirizzava il mio sguardo su preselezionati e lisci arti inferiori. Oppure si può provare a capire quanto l’indole dei due artisti, indipendentemente da tutte le influenze, abbia contato nel percorso di soluzione allo stesso problema, che è, mi pare, il classico, vorace, inquieto appetito creativo che il realismo – come mimesi della realtà – non riesce a saziare. Le divergenze sono lampanti sin dai primi studi di accademia, dove la frustrazione di Licini si esprime negli innesti immaginifici, mentre quella di Morandi in una specie di visione imprecisa della realtà, come un leggero fuori fuoco. Questo atteggiamento, per quanto siano complessi gli sviluppi, si protrae costantemente, e quando Licini è rabbiosamente corrosivo, procede per esplosioni e rifiuti, fino agli esiti astratti, geometrici e alle fantasiose, lambiccate figurine dell’ultimo periodo, Morandi persiste in una lenta, paziente, sommessa erosione di una realtà al culmine della sua letale, insignificante ripetitività, quasi squallida, che alla fine del percorso si slaccia nell’astrattismo, come dopo una lunga, agonizzante premessa. Detto questo, è sempre interessante come le mostre d’arte contemporanea riescano ad evocare quel senso di distanza che esiste fra i referenti e le parole, più di quanto non sia possibile percepire raccontando la realtà, dove l’illusione di una contiguità è più robusta. L’interpretazione critica, in questi casi, è la dichiarazione potenziata dell’inefficacia di ogni descrizione. Sembra di allontanarsi da ogni cosa e che ogni cosa si allontani dall’altra, fluttuando in una sorta di vuoto terribile: l’opera dal critico, il critico dall’artista, lo spettatore dall’opera eccetera. E’ una lotta disperata alla ricerca di una definizione e di un contatto. I commenti critici, anche autorevoli, sono spesso compilati in quel gergo evocativo disincarnato, velleitariamente creativo, da risultare bizzarri, diluiti, persi come sono nel campo nebbioso che separa il truismo, la tautologia e il sofisma. Altre volte, non riuscendo a penetrare nel simbolico, territorio molto amato, si arrestano al letterale didascalico, come un velo opaco sopra ciò che l’opera già mostra. Oppure soccorrono l’interpretazione con inferenze storicistiche, riferimenti che aiutino a spiegare un improvviso viraggio di poetica eccetera ( Ma quanto c’è di arbitrario, in questa corrispondenza? ). Eppoi è interessante  come agli occhi dei visitatori a prima vista anche edotti, l’opera sembri una specie di buco nero attorno al quale si può soltanto girare in tondo, per comparazioni e approssimazioni. Due signore con ventaglio: “Quello è un Matisse” “Quello, invece, è quasi uno Chagall!”. La verità sulla questione, che merita un dibattimento più lungo e accurato, secondo me sta proprio in un dipinto di Licini, uno degli ultimi, che si intitola “Il filosofo” e raffigura una mano dotata di faccia sostenuta da un piede: un essere peripatetico totalmente senziente, cioè tutto il contrario di una rassicurante, enciclopedica astrattezza.

Matteo Fulimeni

© Giovanni Marrozzini

                                   

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

4 Responses to “Divergenze parallele.”

  1. Alessandra scrive:

    Ho avuto la malaugurata idea di partecipare all’inaugurazione della mostra, in un’orgia di spalle veramente troppo vicine.
    Conto di ritornarci in questi giorni, possibilmente da sola, in ogni caso con qualcuno che se ne stia zitto a osservare quel che gli pare, pure la scritta “uscita” (se c’è). Non so tu, ma io a scuola non ho imparato proprio nulla di storia dell’arte e ho sempre odiato il mio prof per questo motivo.
    Forse un eccesso di storicizzazione è sbagliato, soprattutto se non accompagnato dalla trasmissione anche delle emozioni che dovrebbero trasmettere le opere d’arte.
    L’unica maniera per imparare qualcosa, da adulti, è restare curiosi e aspettare che il quadro, la foto, la statua etc etc ci dica (o meno) qualcosa.
    Ci vuole il coraggio della pazienza. Da adulti, forse, è più facile coltivarla.
    Bravo Matteo, continua così.

  2. veronica,alice,sara,celeste scrive:

    Pur facendo le maschere alla mostra e standoci quindi quasi notte e giorno,poterla visitare attraverso altri occhi e altre parole è stato molto interessante…una sensazione nuova.Vi ringraziamo per la visita e vi facciamo un grande in bocca al lupo per il proseguimento del tour nella speranza che ci passerete di nuovo a trovare per altre occasioni.

  3. mariateresa scrive:

    mi hai fatto venire voglia di visitarla!

  4. Massimo scrive:

    Mi sbaglio di certo, ma, a mio modesto parere, prima di tutto viene il contatto con l’opera.
    Se questo avviene allora è tempo di approfondire la conoscenza, altrimenti l’ignoranza non ci farà troppo male.
    Massimo M

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