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Ti amo.

Castelnuovo di Garfagnana (LU) – Mi commuovono solo le cose che ho perso, e le dichiarazioni di guerra sono discorsi d’amore.

Era come l’odore di bruciato che viene dal pesante ruzzolare di una mola, la mattina di Settembre a Castelnuovo, l’aria che irrita il fondo del naso, e il sole bersagliava ancora a salve i chioschi sguarniti dei giornalai, calmi, i nudi parcheggi, la tartarea proliferazione delle case, come di stratificato accampamento, e tutto l’immaginabile resto di un piccolo, articolato paese mediomontano con cinema, libreria, diversi caffè, una piazzetta, vigili urbani, asfalti scalcagnati, vita e cameriere tornite e cuochi e marciapiedi, comprese le sfumature di guano e le piume di piccione sparpagliate assieme alle foglie decrepite nelle sterpaglie dei parchi – da cui veniva l’odore – su intagliate e grigie pietre di selciato. C’era una brezza e un cielo, e da qualche parte succedeva qualcosa di terribile, amorfo e represso (succedeva in una casa, improvvisamente, ne veniva fuori un corpo in barella, col cuore immobile ). Tra le forme di vita umane, molto diverse, alla bambina, che si era inchiodata a guardare, con fissità desiderosa, dalla balaustra del ponte, il fondo celatamente fognario del fiume, anche se non sembrava, veniva detto che buttarsi o fare il bagno sarebbe stato terribilmente insalubre. La risposta della bambina era una domanda. Sulle rocce vagamente ellittiche del letto, dolcemente logorate, aderivano toupet neroverdastri di sinistre alghe protese e oscillanti come capelli di cadaveri. Cadevano, selettivamente, nell’angolo dell’occhio della ragazza anoressica. La ragazza anoressica aveva ceduto alla convocazione implorante dell’amica a tutti nota come espansiva, tenuta sottobraccio nella loro incerta passeggiata, uscendo finalmente di casa nel sabato mattina, e mostrava un sorriso di faticosa allegria, mentre con la sua acuminata filiformità lasciava strada a un vecchio malfermo, tutto imperniato sul bastone, che davanti a un fruttivendolo, sismograficamente, come tutte le mattine, si era fermato per un esercizio logopedistico – parlava con estrema difficoltà, e allora gridava! –  per chiosare il quale, il fruttivendolo esplodeva in scanditi e baritonali assensi – motivati dall’assodata sordità del vecchio che, tra gli altri, era guardato a vista, scrutato, esaminato, con una sorta di muto e infermo occhio critico, sprezzante e guerrigliero, dalla vecchia intubata, con le cannule trasparenti al naso, che sordamente procedeva nel suo ferino approvvigionamento d’ossigeno, seduta al tavolo del caffè dall’altra parte della strada mentre ordinava un millefoglie eccetera eccetera eccetera. Allora per le vie così variamente popolate si levò l’urlo infantile e persecutorio di una sirena d’ambulanza. Si faceva strada con presunzione – il mezzo soccorritore – e sparigliava il mazzo di forme di vita umane e automezzi che aveva di fronte, quasi divaricava l’ammasso tartareo delle case vecchie e nuove, come una lama avvolta in un campo magnetico d’urgenza, un bisturi chirurgico infallibile, sicché (come si dice qui), al suo passaggio ogni cosa zampillava a destra e a sinistra, secondo parabole deboli e appena sufficienti, tracciando il disegno stilizzato di una fontana su una luminaria di natale. Automezzi ed esseri umani disaggregati: e l’ambulanza si fiondava verso il soccorso, e tutti erano solerti e rispettosi e assicuravano al poveruomo incapsulato nell’ambulanza la dovuta, compassionevole dignità, facendo a gara a chi si scansava prima per far passare l’ambulanza ( Gli uomini al volante, soprattutto gli sposati, scuotevano il torpore coniugale avventandosi  sul volante come sul timone di un transatlantico. Che uomini! ). Per fortuna che alla guida dell’ambulanza c’era una specie di colosso comunemente noto come colonna portante del soccorso, stella polare di ogni corsista, un colosso molosso dal grosso dosso – la sua bocca smottava agli angoli – di quasi un quintale e ormai decennale esperienza, un tipo eccezionale, che faceva sempre la colazione americana, quasi un monumento umano, che mangiava toast e uova, un tutankhamon della rianimazione, toast e uova prima del faticoso lavoro, l’unico che sarebbe stato capace di fare ciò che in effetti fece, quando, scorto l’ingombrante, inatteso impedimento sul selciato poco oltre il muso dell’ambulanza, proprio in mezzo alla strada, una cosa che sembrava rosea e viva e impercettibilmente semovente, come una lumaca, fu capace di applicare la giusta, misurata, esperta pressione al pedale del freno e di far si che l’ambulanza si fermasse senza inchiodare, in poco spazio ed evitando letali pattinamenti. La colonna portante del soccorso compì la spettacolare manovra: assieme al suo tirocinante sobbalzò in avanti con violenza e il suo peloso grosso dosso di capodoglio quasi gl’inghiottì la grossa testa molto invidiata, come un vorace guscio di tartaruga. Lui smoccolò, mentre il tirocinante, un giovane dinoccolato,smunto e immaturo, riacquistando un equilibrio contegnoso, come un’ inabile scimmia, tollerava, per rispetto, il suo smoccolamento (usava un’espressione incolore, il che non era difficile ). L’uomo che stava disteso davanti al muso dell’ambulanza, ad almeno due metri dal muso, era inciampato e ora aveva la bocca bocconi e sbrodolata, lo zigomo abraso, e gli occhiali rotti (gli occhiali rotti!), con una lente scheggiata per sempre fuori servizio e una stanghetta tutta ritorta. Un dettaglio inaudito, che fu il suo primissimo pensiero ( più che lo scampato investimento ), dato che rompere l’occhiale, lo sappiamo, è notoriamente un accanirsi su una debolezza. L’ometto viscoso bocconi e abraso si adirò ( riacquistò un controllo, però, sulla sua salivazione ). Ma chi s’era accanito su di lui? A chi rivolgere la rabbia di quest’onta? E in più non si muoveva. Il pensiero successivo era una domanda. Si chiedeva come avesse fatto ad inciampare. Come aveva fatto, se nel momento dell’inciampo, era praticamente fermo? Non c’erano sampietrini traditori, né rammentava l’esistenza storica di movenze pericolose che giustificassero un incastro sfortunato. Mosse la testa, lungo disteso come una foca, e vide quindi il muso dell’ambulanza, fermo di fronte a sé, il fiato caldo del radiatore, il lampeggiante che lampeggiava muto, la colonna portante del soccorso e il tirocinante dietro la scritta rovesciata, ancora immobili e tramortiti, eppoi la folla che lo attorniava largamente, sgranata, con una distribuzione di sbandieratori, sul perimetro dello slargo trapezoidale, e lo osservava non fare una mossa ( se non con mento e testa, come dopo un pestaggio ) senza fare una mossa ( tutti assolutamente pietrificati ). Si ascoltavano i residui tintinnii di tazze e cucchiaini prima della sospesa disgrazia: erano le tornite cameriere che raggiungevano i tavolini con le ultime ordinazioni, disinformate. Che fare? Se la caduta non aveva cause dinamiche, si trattava di cedimento strutturale. Si convinse della diagnosi in una specie di certissimo lampo, e allora non provò più ad alzarsi, paralizzato dal terrore. Steso lì, spettacolarmente, iniziò a subire stati emotivi che dondolavano sempre più impetuosamente, come una giostra spaventosa, fra il dolore e la vergogna ( di bloccare fatalmente l’ambulanza ). Infatti gli scoppiò un dolore alla gamba, come se un grosso spino velenoso gli si inoltrasse nella polposa carne del ginocchio. Era un dolore vero? Soffrì senza gridare, non diede a vedere niente, perché, dopotutto, stava intralciando un soccorso. Nessuno faceva nulla. La colonna portante del soccorso subiva la sua prima, stupefacente defaillance, e restò inebetito, in una ostinata ipnosi. Poteva ammazzarlo! Il tirocinante aveva spalancato, con un appetitoso slancio di iniziativa, lo sportello, che teneva aperto di appena dieci dita, perché dopo si era subito bloccato in attesa di un salvacondotto, e così attendeva gli ordini del peloso, glorioso capodoglio, che però nuotava nelle acque buie della trance del trascorso repentaglio. La signora con le cannule aspirava avidamente ossigeno di prima qualità. Una delizia. I vecchi si fregavano le mani, se le torcevano ( che mancata sciagura! ), e preparavano un mezzo necrologio ( ma quasi, quasi, quasi! ) immaginario. La ragazza anoressica si sentì ferita dall’inoperosità di tutti quanti e volle gridare che erano dei mostri insensibili e degli stronzi senza cuore, gridarlo sbracciandosi, ma non lo gridò, limitandosi ad immaginarlo, perché poi le avrebbero detto che era scema, ed era scema perché era anoressica. L’amica espansiva implose in un ammutolimento interiore tipo nana bianca emotiva. Distaccata come un generale. Il vecchio con la quasi totale afasia e sordità continuava il suo discorso senza capolinea, nella più completa ignoranza del contesto, a voce altissima, nel totale silenzio ammutolito, mentre il fruttivendolo sfoderava un sorriso elastico e deforme di imbarazzo, per non deludere il vecchio né sembrare insensibile al disagio di tutti, e infilava melanzane in un sacchetto per il pane ( che altro avrebbe potuto fare? ). La bambina amante dei fiumi e dei suicidi ludici pensava “perché-perché-perchè”, e ogni tanto questi pensieri sorgevano in rapide forme verbali tipo cantilene eppoi si ritraevano in pensieri, e comunque tutti quanti erano straconvinti che l’uomo, questa specie di Lazzaro usurpatore di soccorsi, quest’ometto inciampato che non si rialzava, e non dimostrava dolore e non faceva passare l’ambulanza, quest’ometto così composto nella sua immobilità di inciampato, non potesse essere così assolutamente solo, lasciato a sé al punto tale da non aver un compagno deambulatore che condividesse con lui quell’intimità che avrebbe permesso di avvicinarlo e tirarlo su senza vergogne  né rischi di essere additati come insolenti o inopportuni, che era la scusa suprema e definitiva di tutti. Ma lui si vergognava, di tante cose improvvisamente, e più della vergogna era il dolore, che non mostrava, e della vergogna dava a vedere solo quella parte che doveva comunicare a tutti un senso di costernazione, di afflizione per il fatto di intralciare l’ambulanza, il percorso verso il soccorso del poveruomo incapsulato nell’ambulanza ( che nel frattempo, immerso in un precario equilibrio chimico sognava tantissimo, sogni bellissimi e tropicali, e s’illudeva che fosse morto e che i suoi sogni fossero il paradiso, o qualunque altro meraviglioso luogo post mortem e, in pratica, tutto desiderava meno che essere soccorso e tornare in quella mostruosa piazza di matti che era il mondo fino a un’ora prima ) Inoltre, accanto al poveruomo incapsulato nell’ambulanza, seduto accanto a lui nella capsula, stava un secondo tirocinante: benedetto da una totale incoscienza, fissava rigorosamente, apaticamente, il percorso disarmonico dell’elettrocardiogramma – e in pratica era un altro che non soccorreva l’inciampato. Proprio l’inciampato, spalmato sulla strada, si sentiva sempre più indecorosamente colpevole, e si colpevolizzò per il fatto di aver soprasseduto con colpevole colpevolezza su quel cigolio kafkiano che gli veniva dal ginocchio nelle settimane passate. Se solo avesse dato retta alla sua insopportabile, odiosa moglie ipocondriaca!  ( Né lui, né il moribondo che adesso balla il limbo e beve mojto su un’onirica, chimicamente squilibrata spiaggia tropicale sarebbero ora in questa situazione ). Doveva provare a tirarsi su, ad esempio, eseguendo una flessione. Ma era inutile, e nemmeno ci provava: sarebbe riscivolato giù come uno sdraio difettoso. Sapeva, oramai, che se anche il soccorso fosse venuto ( voleva gridarlo, voleva gridare che venissero a raccoglierlo, ma si azzittiva, perché incapsulato nell’ambulanza c’era uno-messo-molto-peggio ), se anche fossero venuti, qualcosa si era ormai incrinato, un punto meno materiale, una piccola evanescente cartilagine irraggiungibile da tutti che si apriva nel suo dolore come una voragine ( in un punto incerto di tutto ciò che era ), e era sicuro che per il resto della vita, perdurando la vergogna, avrebbe guardato il mondo dal fondo della strada, come un obiettivo affisso sotto un paraurti di una macchina da corsa. Come avrebbe potuto vivere così? E chi aveva più bisogno d’aiuto? Nessuno faceva niente, niente di niente, giustificandosi con le più valide e sensate giustificazioni. Tutto comprensibile, c’erano troppi interessi, e attorno all’uomo, e all’ambulanza, si era formato come uno statico presepe di inefficienza – che bello! – c’erano troppe ragioni per non avvicinarsi, e l’ometto inciampato lo capiva, in fondo, e giustificava, nobilitava la sua indegnità pensando a tutte le volte che aveva fatto la stessa cosa in altre situazioni di inciampati: la vecchia succhiava aria, aria, aria; aria come un aspiratore; la ragazza anoressica nutriva il suo rancore autolesionista; l’amica si gonfiava di infinita comprensione; il tirocinante doveva obbedire agli ordini; la colonna portante aveva quasi incrinato la sua leggendaria reputazione; quell’altro guardava il monitor; il fruttivendolo ringuainava melanzane; il vecchio esercitava la lingua atrofica; chi voleva chinarsi? Chi l’avrebbe fatto? Tutti immobili, supponenti e buridani, per non parlare del poveruomo incapsulato nell’ambulanza, che si beava di un paradiso illusorio tendendo la debole mano verso la via di fuga di vagliata sabbia bianca, spernacchiando i vecchi colleghi di vita, i piedi obitoriali che svettavano dalla luminosa coperta termica, vantandosi della sua prossima morte e…primo fra tutti, il compilatore del resoconto, lo scribacchino che batte sui tasti, batte, striglia e cavalca il suo bestiale malumore, la sua rognosa frustrazione, irredimibile, irrevocabile e inguaribile, fra personaggi assurdi e caricaturali che incarnano le sue ombre insaziabili, e prima di salvare il file del testo fa assembrare grosse nuvole antidiluviane, cupe e inverosimili, sopra al paese e al disgraziato evento, nuvole obese e intrise, sopra all’uomo inciampato, alla vecchia con le cannule, al capodoglio, ai tirocinanti, ai fruttivendoli, a tutti, tutti quanti ( tralasciando le cameriere ) e mentre muove il cursore, con la sua mano di triste, povera divinità, nel vaporoso grembo viola delle nubi vede acconciarsi e inturgidirsi ( Che gergo! Che funambolo! ) un luminoso, risolutivo, definitivo flagello.

Ma non sa infilare, nemmeno in croce, due parole d’amore.

 

Matteo Fulimeni

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

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