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Pasticciotti.

Lecce – Quaderno pugliese

V

Il pasticciotto è quasi finito, a quanto pare, e la pasticciera, un viso di regina delle zingare deposta e imborghesita, se ne rammarica. Ci hanno accompagnati qui per assaggiare questa gloria culinaria locale dal nome un po’ imbarazzante – pastiCCiotto, sentite come suona grasso, straripante, incontenibile, lordo e promiscuo – ma il posto pare tutto tranne che una pasticceria: spoglio, di raffinata e lignea eleganza, sembra sabaudo ( ci sono, appesi, certificati o attestati seppia risalenti all’unità ); la vetrina è vuota come quella di un negozio liquidato, e nelle teche all’interno stanno solo grossi barattoli di vetro anch’essi vuoti e della funzione arcana e impenetrabile. La cassa è un  vetusto registratore di cassa molto più simile a una macchina di Pascal che a una cassa, e completa il quadro curiosamente retrò e deraciné dell’ambiente. C’è appena un frigorifero con un pugno di piccole torte al cioccolato gelidamente illuminate, ma non dissuade dal credere si tratti di una copertura per loschi contrabbandi amministrati nel misterioso retrobottega, silenziosissimo, dal quale spunta in continuazione un’assistente dallo sguardo fissamente truce del bovino, e che adesso consegna l’ultimo vassoio di pasticciotti alla signora che ci precede, la quale, sostanzialmente, è la causa storica dell’estinzione dei pasticciotti. Non si discolpa, naturalmente, ma allevia il peso dell’eccidio con la diplomazia, interessandosi ai nostri destini e lusingando le nostre patrie natali. Caldeggia una nostra protratta permanenza al solo fine di assaggiare i pasticciotti, e G, che tutti tendono oscuramente a prendere molto sul serio, si autoinvita a casa della signora – li veniamo a mangiare a casa sua, signora, i pasticciotti – e la signora, fatalmente intrappolata nella sua autoassolutoria gentilezza, palesa il suo disagio con un muto ma dichiarativo ingrigire. La mia faccia ha l’autosufficienza imperturbabile dell’autistico nell’attimo in cui G è costretto alla chiosa rassicurante del barzellettiere incompreso. Il colpo assestato dalla signora alle riserve di pasticciotti non è, però, del tutto una fatality: alla stregua dei dodo, alcuni pasticciotti resistono eroicamente al proprio destino di completa recessione, e la proposta è quella di dividerci equamente gli ultimi, contati esemplari di pasticciotti, una proposta che troviamo ragionevole. Siamo immondi e senza cuore. Tributo al pasticciotto, fragile e indifeso nel mio grosso pugno, un’ispezione olfattiva all’altezza della sua fama, ma è inodore. Piange e lo divoro. Anche al gusto è difficile descriverne le qualità: si può dire che sappia di crema, ma è altamente inesatto. Allora si può dire l’unica cosa che mi viene in mente lì per lì, sinestetica: il pasticciotto ha un sapore caldo, ed è buono. E’ nella mia bocca, dilaniato dalla dentatura, e muore tragicamente. Nel corso di queste vicende c’è uno zampillio di avventori, sulla soglia, tutti avidi di pasticciotti come di anfetamine. L’ultimo, che di certo ne ha una dipendenza saltuaria, commenta con rassegnato fatalismo l’inappagamento che gli è toccato. E’ un vecchio in canottiera: per lui, oggi, niente pasticciotti. G si è stancato di questo lavoro e vuole aprire un negozio di pasticciotti.

VI

Come un cimitero ebraico, a suo modo rigoglioso e chiuso alla vista da alte mura di cinta: così ci si presenta il Santuario della Pazienza di Ezechiele Leandro, scultore. Le statue, nel cortile della sua casa museo a San Cesario, si sollevano come termitai: golemiche e assediate dalla gramigna, hanno uno scheletro di ferro e una corpo di calcestruzzo, rozzamente assemblato. Vi s’impastano, a comporne i dettagli, calcinacci, scampoli di foratelle, schegge di vasellame, frammenti di piastrelle variopinte, cocci di bottiglie, resti di sanitari. I soggetti sono quelli dell’arte sacra – crocifissioni, maestà, pietà e martiri – ma ci sono anche immagini da ballata popolare, le forche, le trenodie e le orchestrine; gli immancabili Don Chisciotte. Per me sono capolavori: lieti o angosciati, i visi rabberciati, sessualmente indefinibili, con gli occhi chiusi da bottoni, hanno gonfie espressioni da maschere tragiche, i cavi sorrisi o i contratti dolori arrestati nel cuore di una fragilissima commedia umana, spaventosa e grottesca, dove la struggente precarietà è resa in maniera totale dallo stile prescelto: le figure passano quel senso di incombenza capitale che grava sul materiale di rigetto di cui sono frankestianamente composte, sempre sul punto di sbriciolarsi, di tornare ad uno stato di materia non solo inerte, ma inutile. E’ un giardino di reietti, ridotti a monconi e ricostituiti dopo una lugubre autopsia. Ha qualcosa di fortemente letterario, che ricorda le ballate di Petrica Kerempuh: le figure più allegre sono dotate di un’ilarità incrudelita e fatalistica, da bettola. Questo luogo non è solo in uno stato di abbandono deplorevole, dimenticato da chi avrebbe le risorse per valorizzarlo e donarlo, come deve essere, alla gente, ma deve difendersi sempre più precariamente da continue aggressioni. Il custode, uno di quegli uomini che associano un elegante silenzio e una sigaretta a una disillusa saggezza, protegge questo santuario con una devozione intimamente affettuosa, ancora ricca di un legame umano con l’artista, e meriterebbe un ritratto a parte (ne abbiamo, però, una lunga intervista): ci mostra i resti di un assalto alle statue, a colpi di piccone, da parte di individui interessati al lotto edificabile. Ci fa strada fra le figure, fino all’autoritratto di Leandro, in groppa a un maiale. Pare che nella sua teoria sull’artista, ne fosse l’emblema perfetto: lurido da vivo, ma squisito da morto. Qui, però, si sono ammattiti e del maiale buttano via proprio tutto.

Matteo Fulimeni

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

One Response to “Pasticciotti.”

  1. mt scrive:

    pasticciotto mon amour!

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