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Una bella presa per il culo.

Lecce – Quaderno pugliese

XI

La centrale di Cerano si annuncia, col suo altissimo comignolo, nel punto di fuga di questa lunga strada rettilinea che passa tra ricchi vigneti dai colori raggianti, fra lievi ondulazioni: è servita ( la strada ) da un’illuminazione pubblica fotovoltaica, ma ognuno dei lampioni è stato scrupolosamente privato del suo pannello solare. Apparsa nella sua interezza, ma ancora lontana, la centrale ha il fascino irreale e sbalorditivo delle cose gigantesche, sbiadita contro l’orizzonte, come una fantasia. Le cose  maestose conservano una singolare bellezza anche quando sono brutali. In questo sentimento di compiaciuto e disarmato autolesionismo, è solo più avanti che metto concretamente a fuoco il prima lontano totem futurista, che adesso preme su un’ inerme spiaggetta, dove c’è un bagno privato, a prima vista ridicolo, forse dalle terrificanti implicazioni ( nel parcheggio troviamo un piccolo, improvvisato accampamento Rom ). Il comignolo, traccagnotto, a bande bianche e rosse, è in realtà un fascio di comignoli: a renderlo sinistro il fatto che non si discerna cosa stia vomitando – niente fumate bianche o nere o altra roba che gridi a voce altissima TISTOAVVELENANDO!!, come nelle vecchie, velleitarie pubblicità contro l’effetto serra, nemmeno il suggerimento di un miraggio. Domina (il camino) su quattro padiglioni cubici e cubitali, di un verde scialbo e innaturale, grandi come hangar (forse di più), collegati tra loro da alte passerelle su più livelli. La lingua mostruosa di un piano inclinato inizia a srotolarsi dall’estremità destra, sorretta da piloni d’acciaio, come la prolusione di un lugubre ottovolante, sin quasi a scomparire dopo aver disegnato un arco blando ed esteso che fa l’orlo al mare, proiettata ( la lingua )  verso un secondo orizzonte – una marina più a nord –  imbrattato e brulicante di strutture satelliti, tirapiedi o figliocci che suggono dalla tetta madre. Sarà un bel chilometro in linea d’aria, ma anche da qui il boato apocalittico della sirena – suonata due volte, assieme ad un inintelligibile e semidivino richiamo – mi strizza e conturba. Scortata da un assembramento di tralicci, ha un nome araldico (Centrale Federico II ) che è una bella presa per il culo, e pare che tutto il mare qua attorno sia così caldo che i pesci, attratti dal bagno termale, finiscano nelle turbine e ogni giorno affiorino biblicamente in certe vasche di raffreddamento. Viene chiesto agli ingegneri se loro, a casa loro, mangerebbero quel pesce. “ Ne facciamo, io e la mia famiglia, enormi mangiate. I miei figli se ne nutrono”. Ed è per questo che riescono a respirare anche sott’acqua, che qui è blu, ma ricca – troppo – di spuma. Più sotto, dentro un’altra rude, provocante visione, interi chilometri di costa erosi e smangiati: un improvviso, tormentato fiordo ferrigno che scorre sotto i nostri sguardi: sbattute contro il suo corpo terroso, le onde, furenti, hanno il colore del succo di carota.

Matteo Fulimeni

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

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