© Giovanni Marrozzini

Muoio senza di te.

Castelnuovo di Garfagnana (LU)

Alberi, boschi. Una coltre fitta e scura su un panorama ascoso.  Alberi dalle forme gregarie, dimesse. Ho attorno a me un vuoto di consulenza, sul ciglio tortuoso di una strada montana. Domando dei rudimenti di botanica, senza i quali sarebbe impossibile riconoscere le piante che vedo, le più comuni e semplici, ovviamente. C’è questo vuoto di consulenza. Ma ecco come mi sembra la Garfagnana: spiccia, senza vezzi, un racconto di Carver; chine che si gettano l’una sull’altra togliendosi il tempo di digradare, cime che si stipano e si spalleggiano, come una merlatura, senza dismisure o eccessi. Monti che chiedono di essere attraversati, superati, ultimi rozzi ostacoli prima del mare, padri da rigettare, i veli di bruma che al tramonto si tendono dai cucuzzoli bluastri come i filamenti iridescenti di bandiere sfrangiate, a fare da richiamo potente. Poi la spasmodica routine di scuri tornanti immersi nel verde cupo dei boschi, tornanti turbinosi e nervosi, che sembrano pensati per viaggiare depistando qualcosa o qualcuno: è un luogo di imboscate, vissuto con sacrificio. Un padre di famiglia che ha tempo solo per il lavoro. Un manifesto senso di prosaicità ovunque, di manualità. Dighe sottili e vertiginose celate dappertutto, in valli acuminate,  le lunghe brulicanti vasche degli allevamenti di trote.  Negli invasi idrici il lento galleggiamento di foglie e ramaglie a formare una spessa pellicola papposa sull’acqua ferma e olivastra. I fiumi che cambiano la portata per le molte dighe aperte o chiuse, i grossi dotti lacrimali che scendono da chine artificiali rifinitissime, condutture ad alta pressione, oscene come vene varicose, di un verde militare, surrealmente silenziose, che tremano al tatto come un binario e si gettano a capofitto nella frettolosa, pratica urbanistica di paesi poco seducenti, disinteressati a sedurre, che vanno esplorati con pazienza, superando il disagio del primo impatto, e pronti a bere corrente a garganella. Angoli di decadenza dove si scopre la bellezza, padiglioni di bagni termali dilavati e screpolati, scappucciati e ottagonali, con false finestre, sopiti dentro materassi spinosi e una vecchia fanghiglia di cioccolata: vasche sbeccate per l’antico deflusso delle acque e le impronte di un vissuto recente, furtivo e laido: tracce fossili di porcate e incisioni coprolaliche.  

II

La sera faccio sempre una passeggiata vicino a dove siamo parcheggiati – pensando a quello che devo scrivere – accanto al campo da calcio illuminato, negli echi di un allenamento, sotto la luce incolore dei riflettori. Debora sei bellissima. C’è una tensostruttura che in questi giorni è inutilizzata. Un manifesto di una cosa di magia che mi provoca astio, mi fa sentire la morte. La mattina i ragazzi parcheggiano qui i motorini e si incamminano verso la scuola, fanno un baccano imprudente e adorabile. Muoio senza di te. Mi piace fare una passeggiata la sera verso le sette lungo la stradina dietro il campo da calcio, sotto alberi immobili. Spiare le serpentine da dietro la rete, intravedere i tuffi dei portieri – giudicarli – le donne che ansano strizzate nei fuseaux striati mentre compiono il giro del campo e studiano i calciatori. Le chiacchiere da massaie, le ripetitività nauseabonde, le cazzate. W la topa. C’è ancora una clemente mancanza di fumo umido quando si respira. L’autunno è dolce, carezzevole. Mi piace qui dietro, mi piace leggere i murales. Questi luoghi occupati di forza dalla piena della vita. L’esondazione. Eppure mi hai cambiato la vita. Nessun conferenziere verrà qui a umettarsi le labbra bevendo da una bottiglietta di plastica ed elargendo la sua panacea, qui la natura fa da sola. Non ce n’è uno composto ad ascoltare. Nessuno che sgrani gli occhi lucidi per restare in ascolto. I baci ribaditi fino alla siccità, le madide svomitazzate da sbornia, i coiti scomodi e ansiosi. Nicolas trombami. Mi piace leggere i tatuaggi murari. I loro dispacci banali, rubacchiati, scontati, piatti e monotoni. Le dichiarazioni arrese al prototipo. Non importa: a renderli ardimentosi è il medium, non quello che comunicano: il dono è tutto nell’atto di insudiciare il muro con una bomboletta. Il più grande spettacolo dopo il big bang siamo noi. Quando i riflettori dello stadio si spengono con un tonfo, mi illumino la strada con una piccola torcia e passo qui dietro, nel buio, come uno stupratore.     

Matteo Fulimeni

© Giovanni Marrozzini

 

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