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La città galleggiante.

Ancona – Poi, sulla squallida parete di cemento armato di un pilone di uno dei bassi cavalcavia vicino alla stazione, una notte che tornava mortificata e tutta bagnata da una delle sue sortite solitarie e coattive, come quelle di un degenerato, trovò scritto con una calligrafia ispirata che ai cuori infranti crescono le branchie, e le sembrò perfetto: per alcuni secondi si guardò attorno convinta che qualcuno la seguisse nell’ombra da mesi, ma non c’era nessuno, e i bar, come sempre, erano chiusi. La ragazza sviluppò la capacità nei mesi subito dopo il fatto: le prime avvisaglie facevano gonfiare gli occhi alle sue amiche di supporto, perché improvvisamente la ragazza trovava l’ambiente delle loro riunioni – erano dei wine bar o altri posti chic con la musica bassa e marpiona e la cianosi delle luci e tutte quelle gambe accavallate che piombavano giù dagli sgabelli torreggianti – assolutamente insalubre dal punto di vista dell’ossigenazione, e doveva precipitarsi nel bagno pieno di donne che si truccavano e declinavano porcate e buttare la faccia sotto il getto del lavandino per sentirsi meglio. Le amiche di supporto, tradite dal suo comportamento, si guardavano con gli occhi che esplodevano dalle orbite, i colli che s’inchinavano saprofagamente l’una verso l’altra e gli indici che tentavano di avvitarsi alle piccole tempie venose come dei giraviti e le bocche che articolavano diagnosi e le mani che formavano tettoie insonorizzanti sopra le diagnosi. Le amiche di supporto si guardavano intorno sperando che nessuno avesse assistito alla scena penosa. L’antefatto diceva che su una traghetto Ancona-Patrasso, una sera di una certa metà di Marzo, in mezzo all’Adriatico, durante un viaggio veramente senza motivo, un uomo dai tratti malinconici e carnali, uno di quelli che certe donne si ostinano a salvare, quegli uomini con gli occhietti stretti e le labbra gonfie, quelli che si muovono dappertutto lentamente come se stessero ripassando una coreografia, quell’uomo giunse a un punto irreparabile quando, nella nausea da rollio che pervadeva la nave scombussolata da un mare terribilmente di malumore e si esprimeva in ubriachi passi di tip tap, involontari tentativi di effrazione poliziesca delle cabine e improvvisa iridescenza ittica in faccia a molti, raggiunse il punto di rottura con la vita quando vide un vecchio e posato signore perdere gradualmente l’equilibrio e dopo una rapida accelerazione di passi sempre più ampi e malgestiti rovinare pietosamente, facendo una smorfia orrenda, su un’inerme ragazza handicappata affondata in una carrozzella con gli arti flosci e tipo umidi come quelli di un vitello appena nato che quattro donne greche vecchie e ornate di monili dozzinali stavano mostruosamente vezzeggiando da un sacco di tempo senza che la ragazza potesse esprimere la sua necessità di liberarsi di loro – lui le stava osservando. Capì subito che l’aver assistito a una scena del genere gli imponeva un’unica integra reazione: percorse allora il ponte spazzato dal vento con la sua solennità da etoile, gli occhi contro il vento freddo e salato ancora più stretti e giunto alla balaustra la scavalcò con il bacino, le mani in tasca, come un bambolotto, con la famosa inerzia dei suicidi convinti, e cadde giù nel mare freddo e scorreggione della notte ( le pale dovettero squarciarlo, a dire il vero ). Il giorno seguente su Ancona cadeva neve a sprazzi contro il cielo cinerino e la ragazza doveva aver mangiato dei cereali col latte freddo in una grossa tazza molto femminile quando senza nessun motivo preciso se non un solleticante presentimento inaugurò un giro di telefonate strano e via via più cupo che in qualche modo le annunciò che il mese dopo non si sarebbe sposata mica come previsto. A seguito dei suoi imbarazzanti e socialmente inibenti attacchi di panico, tutti caratterizzati da una fortissima, repentina mancanza d’aria, fu il suo psicanalista dalle sopracciglia cespugliose e immobili e le mani che discorrendo disegnavano un vasto catalogo di origami, guglie e gabbie a suggerire alla ragazza, nel suo studio pieno di dee madri e falli di legno,di provare ad entrare in intimità con l’acqua, con l’elemento o il seme del suo trauma di perdita – così diceva. Allora dopo i corsi di nuoto, noiosi e deprimenti, ma durante i quali sentiva i gemi della capacità esprimersi improvvisi e spaventosi come i primi orgasmi adolescenziali, in quelle sere novembrine umide e tetre che costringevano ad asciugarsi perfettamente i capelli, la sera completamente nera e irrevocabile fuori dalle finestre zigrinate della piscina, una malinconia pesante ma anche una pericolosa curiosità spingeva la ragazza a rimanere più delle altre sotto il calore esfoliante delle docce. Guardava i corpi delle altre ragazze sotto le docce impoveriti di fascino e seduzione, le pance, i fianchi e i seni che sembravano a riposo, indolenti e rilassati, vedeva ogni parte del loro corpo mostrare, senza l’assillo di piacere, una specie di altrove celata ripugnanza, i monti di venere cinti dagli asciugamani zuppi, le spalle che s’incurvavano, i seni che s’infossavano, la ricrescita abrasiva intorno al pube, le camminate oscene, le facce spente, gli sguardi annebbiati. Aspettava che le ragazze se ne andassero, rimanendo sola sotto le docce picchiettanti e coi piedi immersi nel piccolo lago di sapone croccante delle docce e iniziava a bere a garganella dall’acqua delle docce, con la bocca aperta che raccoglieva tutta l’acqua che cadeva dai funghi delle docce e contemporaneamente la respirava. Proprio così, la ragazza, da quando ha perso quell’uomo lì in quello strano modo, è a suo modo una sirena. Ve l’ho detto. Sente un continuo bisogno di acqua. Sono mesi che la ragazza va al porto di notte e si sceglie una banchina e una volta che è sicura di trovarsi sola, lontana dalle ultime ombre dei pescatori, furtive come quelle dei ratti, e degli operai dei cantieri, scende certe scalette impiastricciate di alghe, fa le sue proemiali smorfie di riluttanza eppoi nuota per ore nell’acqua oleosa, nera e piena di bagliori infuocati ed ispeziona le chiglie dei traghetti, le rose catene delle ancore, le pale gigantesche e tutto il resto. Certe volte spunta in coda a un traghetto che parte e guarda su, vede ombre sottili e fuori fuoco, nel controluce dei fari accecanti del traghetto, viaggiatori che guardano il porto appollaiati sulla balaustra di prua. Ombre opache. E’ tentata di fare loro domande confuse e dolorose, ma poi si rituffa nel buio. Ma che cosa vorrebbe mai chiedere loro?  Al termine di questa attività, le piace sedersi sotto il carroponte più grande e consumare un’insalata pronta Bonduelle, che è la sua cena, e a notte proprio fonda, ritornarsene a casa tutta zuppa, camminando per le vie deserte e soffrendo il freddo. Il suo imperturbabile e cespuglioso psicanalista dice che alla ragazza piace crogiolarsi nel suo dolore vedovile, drammatizzare la sua perdita creando un contesto concreto per le sue buie rielaborazioni eccetera eccetera, nutrire all’infinito il trauma ispezionando le chiglie e le pale gigantesche, dice che la capacità è senza dubbio un dono o talento da mettere a frutto in altri mari, dice che la capacità è nata dal cordoglio per farla rinascere. Dice che la capacità è un dono ma anche una maledizione, che va domata, usata nelle maniere più fantasiose e opportune. Non può farla soffocare in bui porti di provincia. Lei, anche da sirena, è sempre dolcemente scettica. Il suo cespuglioso psicanalista ha anche delle orribili borse viola sotto gli occhi, adattissime ad enfatizzare il suo canino sguardo clinico, le ha parlato di una città lontana fatta per i cuori infranti dotati di branchie, è una città galleggiante, piena di tubi e docce, un sacco di tubi di tutte le forme, dice che sarebbe abreativo, dice. Le ha fatto vedere su internet, ha guardato la foto di questa città. Dovrebbe essere già partita, a quest’ora.

Matteo Fulimeni

© Giovanni Marrozzini

3 Responses to “La città galleggiante.”

  1. Marisa Caniato scrive:

    …..l’inquietudine……

  2. s. scrive:

    che meraviglia questo ritratto! incanto

  3. maria scrive:

    una donna i cui capelli composti le tirano fuori la parte maschile, rendendola molto più vera e significativa di quanto il solo sguardo avrebbe fatto. mi piace :-)

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