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Bruciavo e fischiavo.

Garda (VR) – Era notte, ero solo sul lungolago, gran freddo, una tortura, sedevo su una panchina e leggevo faticosamente alla luce bianchiccia di un lampione ritto e discreto dietro di me come un cameriere, avevo il lago a tre metri dalla punta delle scarpe, e guardavo il lago e il cielo completamente, irrevocabilmente neri con la stessa angoscia di una porta che si apre improvvisamente, in un’esplosione di luce, alla fine di un lunghissimo, strettissimo corridoio durante un incubo, sapendo che ne sarebbe potuto venire di tutto, qualcosa in ogni caso di minaccioso e imprevedibile: mi sentivo come se non avessi con me un cappotto, ma l’avevo, e nemmeno, forse, ma non voglio esagerare, una camicia: quella gigantesca apertura rumorosa come una promessa, tutto aperto di fronte a me eppure incomprensibile, appena appena intuibile ( ma che farsene, delle intuizioni?), gran freddo, quasi un brutto scherzo, nessuno sul lungolago, i tavolini dei caffè bianchi e assiderati nella notte, le foglie d’acanto di ferro battuto dure e intirizzite, e come se non bastasse le pagine del libro che avevo in mano, tutto ripiegato e spiegazzato con copertina e retro che aderivano sotto la pressione delle mie lunghe dita, iniziavano ad appassire e le parole a chiudersi e a rattrappirsi e a sgretolarsi come corolle di fiori morti – rimanevano semini neri sulla pagina bianca, tutti confusi, a fare su e giù come su un setaccio per la farina – e anche il lampione dietro di me, sentivo, tirava il fiato e si andava piegando sulle sue stesse ginocchia: ero stanco, non sapevo più dare un senso a niente, gettai il libro nel lago, fu divorato da un pesce che poi si inabissò lasciando a pullulare  un veloce buco nell’acqua; permisi ad una disperazione senza fondo che imbeccavo di aggredirmi completamente per poter sentire poi maggior sollievo e consolazione a chiamarti, e ti ho chiamata. Così più o meno alle ventitré del quattordici ottobre hai ricevuto una telefonata alla quale hai risposto dopo tre squilli, ed ero io che ti chiamavo, questo lo sai. Potevo capire, dal modo in cui il terzo squillo è morto strozzato, che avevi appena concluso la travagliata e perigliosa traversata, forse carponi, da capo a piedi del tuo letto, dove tieni il telefono, si capiva anche dall’affanno che mascheravi ( questo era un segno che mi amavi davvero? ) e dalle lenzuola e dalle coperte che ancora schioccavano come vele alla burrasca dietro di te, tu fai così, e può darsi che ora le coperte ti avvolgessero, germogliassero attorno a te e ora si ricomponessero come un tovagliolo in un bicchiere, coperta fino alla nuca, in coda alla quale la prima vertebra ti spunta fuori con la dolcezza collinare di un bernoccolo, è un punto di te che adoro baciare, forse indossavi quel pigiama di un terribile giallo acidulo coi quattro bottoni di madreperla ( che invece mi piacciono ), può darsi che la televisione ai piedi del letto fosse accesa, e tu stessi guardando un film, ma nella stanza io sentivo una canzone che conoscevo bene, a basso volume, e di certo avevi le maniche del pigiama arrotolate, tu fai così, e puoi sentire una canzone, la stessa, per ore intere. Ti sei giustificata, non ci dovevamo sentire, non mi hai chiamato, ma eri così lusingata e soddisfatta, come se questa telefonata ti fosse proprio dovuta, e allo stesso tempo fingevi di essere sorpresa della mia premura, che invece domandavi e alla quale quasi mi obbligavi, ma chi se ne importa, io volevo ascoltare la tua voce, volevo ascoltare la tua voce, altro non volevo, questa, quella sera. Ti ho detto Amore Mio, sono davanti al lago, e il lampione dietro di me mi tiene un lumino – tu ridevi già – e ho gli scogli appena sotto le scarpe, ci battono onde fiacche, le luci della città tracimano sulle rive, l’acqua grigia e ricolma di onde a bande, e sopra gli scogli aguzzi, denti, zanne praticamente, ci sono spessi ciuffi o cupolette di alghe, le sommità del tutto asciutte, di un verde strano, sembrano parrucche grossolane, roba da carnevale in piazza, veramente, i tavolini stillano dai caffè vuoti che chiudono, e i germani bucano il nero del lago con i petticini carenati, scivolando, e ogni tanto si intravede il bianco sporco del mezzo cuore di un cigno solitario  nella notte – tutte queste cose non le ho dette proprio così come le ho scritte, tu mi hai detto che dio mio ero dannatamente romantico da non credersi. Non la smettevi di ridere. Io pensavo al tuo sorriso quando mi prendi per il culo, è un sorriso brevettato, femminile, che agli uomini è precluso, è un’eccezionale sommatoria di condiscendenza, protezione, irrisione, ammirazione, devozione, eccitazione, e và un po’ a capire che altro c’è (questo era un segno che mi amavi davvero?). Io so che quando tu sorridi così, posso chiederti qualsiasi cosa. La canzone nella tua camera era Stormy Weather. Così già quasi galoppavo sopra un pontile dove le passerelle per i battelli erano state tirate in secco, tutto solo anche lì, e dopo un preavviso fulmineo, muovevo il telefono nell’umidità buia e insensibile come uno stetoscopio, per farti sentire come in un punto le onde battessero con più insolenza, senza un motivo evidente, facendo il botto di una sculacciata, e lo sferragliare di tre chiglie a una decina di metri da me, che nella penombra e nella debole corrente  evocavano il clangore di una cassetta per gli attrezzi mezza vuota e sbatacchiata da un nipotino annoiato. Io riaccostavo il telefono all’orecchio e sentirti, sorprenderti in un serio, attento silenzio, mi faceva sentire benissimo: siamo ancora a questi momenti, in cui posso permettermi i miei puerili romanticismi senza sembrarti più imbecille di quel che sono: posso essere così stucchevole ed essere anche preso sul serio e con impegno. Io presumo tutto questo. Questi momenti mi permettono di presumerlo, lo voglio credere. Aggiungevo Amore Mio che le foglie cedevano improvvise, si abbandonavano e si avvitavano nell’aria, si avvolgevano in spirali di dna, cadevano come festoni ai quattro angoli della mia persona, e descrivevo come dalle sponde lontane le luci dardeggiassero e si spalmassero sul lago in un velo di fuoco pericoloso. Mi sembrava incredibile che ora ti parlassi in questi toni delle stesse cose che un minuto fa odiavo e che mi ferivano in tutte le maniere, improvvisamente mi accorgevo di averle sempre amate, venerate ( questo era un segno che ti amavo davvero? ). Ora che ti parlavo io mi accendevo e fischiavo come un bengala, tutto si rischiarava, potevo vedere la luce diurna fare gli orli alle acque del lago, bruciare come un anello di cipolla in un pentolino d’olio, sponde e piccoli declivi dove la gente si stendeva inoperosa, fiduciosa come in un pomeriggio di tarda primavera, io non smettevo di parlare, bruciavo, fischiavo, rischiaravo. Il lago sapeva, dicevamo, di zucchero, sudore e asciugamani mai ben asciugati dopo molte docce, e di che altro, dicevamo? Di piume, di lacrime, di sbadigli. Tu hai detto: Di starnuti! Hai detto che forse sapeva del pelo di Ezio Greggio. Ho creduto che fosse verosimile. Ezio Greggio, ce l’ho ribattezzato io, è il gatto che si è fatto una tana fra i libri letti che riponi sotto al letto,  tu fai così. E dopo siamo rimasti zitti per un po’ che non finiva mai. Can’t go on, Can’t go on, Can’t go on. Che volevo dirti? Vorrei sentirmi così lontano da te quando ti sono di fronte a poco meno di due mani e ti misuro come un sarto prima di baciarti la clavicola sinistra, dove hai un pavesino di pelle più chiara, sarei sicuro di desiderarti fino a strapparmi, a dilaniarmi. Insomma, è finita così, la telefonata, che tu hai detto quello che non trova altro modo di dirsi, volevi-essere-lì-con-me, eri seria, ed escludevi tutto esclusi noi due, e non sapevi, non potevi sapere del tutto, al limite potevi presumerlo, che negli ultimi palpiti luminosi del bengala, le rive ancora chiare a intermittenza, la gente che spariva dalle rive, io mordevo quel tuo desiderio, lo stringevo fino a spaccarmi la mandibola, come uno straccio intriso d’alcol prima di un’amputazione.   

Matteo Fulimeni

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

2 Responses to “Bruciavo e fischiavo.”

  1. Cinzia scrive:

    che dire, non c’è niente da dire è già tutto scritto, per ognuno di noi è una storia vissuta, uno di quei momenti che rimangono indelebili nella memoria.

  2. bruno scrive:

    Ciao
    il riconoscimento e il rispecchiamento degli altri è un dono che possimo chiedere nella lingua a loro amica e conosciuta .Altrimenti ascoltiamo con calma un pò rassegnata il silenzio rumoroso e a volte fastidioso di chi guarda distrattamente ciò che non potrà mai nè intuire nè vedere .
    Un abbraccio

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