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Tristi, tragici e belli.

Trieste – Così ascoltiamo avvinti i rapidi, brillanti aneddoti di Renzo Possenelli, intagliatore, scultore, mentre ci accompagna in auto fino a Muggia, sopra un cupo adriatico, davanti alle diecimila varianti di caffè triestino, nella prima calda birreria subito dopo il confine sloveno, o nella sua ricca bottega – il colloquio con il frate che non poteva domandare, ma soltanto rispondere; i grandi amori mai rinnegati; l’ultimo tè bevuto con l’anziana madre in un caffè triestino, dopo un incontro casuale, il pomeriggio del giorno della sua morte; le sue due allieve coreane esteticamente complementari, ma tutte e due eccellenti. Si tratta di aneddoti sagaci, appigliati rapacemente ai lembi più vivi di una conversazione, apologhi che culminano in folgoranti satori.  Renzo Possenelli è un genio vero e proprio, staresti ad ascoltarlo senza cedimenti per tempi lunghissimi, tutto ciò che dice sembra in qualche modo comprenderti nel discorso.  E allora osservo senza sosta il suo sguardo colmo di una comprensione asciutta, che trovo rassicurante, mentre ti passa ai raggi con discrezione compassionevole; ascolto con attenzione, più volte, la cruda simpatia della sua tragica risata, l’andamento teatrale e incantatore del suo tono di voce, la solenne meditazione che pone nel gesto di accendere la pipa, i guizzi ironici che sperimenta su ognuno di noi prima di alleggerire la mano in preda a una specie di pentimento. E’ un genio vero e proprio perché tutto ciò che dice è chiaramente passato al setaccio di una faticosa esperienza e illuminato da una luce di saggezza che riesce a donare senso a tutte quelle esperienze che mentre si vivono appaiono dolorosamente incomprensibili. Ecco perché la sua saggezza è rassicurante. Eppoi è un genio vero e proprio perché dimostra di possedere quella rara specie di tormentato e domandato amore che, nella sua grande ampiezza e capacità, pare racchiudere la propria negazione, la tentazione a rinunciare, nutrita da quella brutale sensazione di essere piombati in un luogo completamente ostile dal quale nemmeno l’amore più bello riesce a sollevarci; e alla fine la fierezza e il candido orgoglio di aver sempre, fra la rinuncia e l’amore, scelto l’amore: dato e ricevuto. Soprattutto ricevuto.

C’è un raccontino di Kafka, il cruccio del padre di famiglia, in cui si descrive una creaturina di nome Odradek, un rocchettino sbilenco e sfilacciato che fa su e giù per le scale del condominio. Bizzarramente, pur essendo un oggetto, nessuno mette in dubbio che Odradek sia una creatura viva, anzi, più viva e più longeva dei vivi. La bottega di Renzo, dall’odore complesso e penetrante, è popolata di questi Odradek,  e non intendo soltanto gli oggetti più elaborati. A partire dagli attrezzi, dal mazzuolo alla pialla, dalle frese ai seghetti, tutto sembra fremere in segreto, muoversi e sussultare. Osservo i numerosi mezzibusti, gli intagli nei visi grotteschi, l’espressione ambigua di un fauno. Indugio davanti a una grande ballerina di polistirolo – per la cui lavorazione Renzo usa l’espressione “portare in quota” – tesa sulla punta del piede, il tutù dispiegato come una conchiglia, le mani contro il tracollo dei seni, la protrusione sbalordita e ridicola del volto. Fisso la sedia che si rovescia trasformandosi in un inginocchiatoio, il busto e gli occhi vacui di un piccolo meschino Hitler con la mano tesa simile a una stele,  i tanti burattini. Ho sempre amato i burattini, il loro dinoccolato ballonzolare, ne sono stato inquietato, e io stesso, bambino, mi dedicavo all’ occasionale costruzione di pupazzi e dozzinali burattini che sarebbero entrati in scena nei trionfali ritorni di mio fratello dai suoi viaggi studio. Questi improvvisati spettacolini dovevano festeggiare il fatto che mio fratello non si fosse schiantato o inabissato con l’aereo durante il suo viaggio di ritorno, che mi procurava ogni volta una terribile angoscia, e potesse quindi essere di nuovo a casa con me. Il fatto è che i burattini inanimati sembrano, più di ogni altra cosa inanimata, cadaveri, e come tali, li guardo interrogandomi sulla mia mortalità. Nella bottega di Renzo c’è un burattino assiso su una specie di trono, molto semplice, essenziale, la testa che pencola sopra uno snodo molto libero ideato dallo stesso Renzo e collegato a un motorino. Renzo racconta di averlo acceso una volta davanti a una bambina, che, di reazione, pianse e si disperò inconsolabilmente. Credo che la bambina seguisse una logica laconica e molto poco misteriosa: ciò che la spaventava era il fatto che una cosa morta si animasse improvvisamente,  la facilmente ipotizzabile reazione che un po’ tutti avremmo se nella mestizia di una camera ardente il morto si erigesse di colpo nella cassa e iniziasse a ballonzolare dinoccolato. Il burattino è tragico per questo: diversamente da una statua, che è sempre compiuta, anche quando incompiuta, il burattino appare invece sempre incompiuto, destinato, come Renzo ci ha detto, all’automazione, alla mise en scene ( qualcosa di simile alla differenza che c’è fra un romanzo e una sceneggiatura ) ( E’ inoltre interessante e, credo, attinente, che il progetto legato a questo stesso burattino prevedesse che il burattino dovesse alzare la testa una volta che il visitatore dello spazio espositivo avesse calpestato la corrispondente fotocellula: come dire che non c’è vita, per il burattino, al di fuori del suo stesso spettacolo ). Questo è il mio trip: persuaso dalla vitalità dei materiali, dei suoi piccoli Odradek, sembra che l’artigiano agisca in un febbrile eccesso di fiducia e tenti di tramutare questa vitalità in qualcosa di più simile a sé, secondo l’antico e ben noto ardore prometeico. Solo che, man mano che la creazione assume forme antropomorfe, i materiali sembrano appassire, la vitalità si perde, si spegne e si diluisce in qualcosa di beffardamente e tragicamente meccanico. In questo i burattini sono essenzialmente tristi, tragici e belli.

E c’è un’altra cosa ponderosa, che però dico su due piedi. Possibile che un artista, questo individuo che si riconosce nella libertà ma si circonda di regole e ossessioni, sperimenta profonde crisi di fiducia e fiammanti megalomanie, che si tiene in equilibrio fra l’egoismo e la compassione, la voracità e la generosità, e quindi è in perpetua lotta con l’atto stesso di liberarsi, sia il più emblematico dei burattini? E che i suoi legacci si perdano in quel vivido mondo infantile pieno di miti fondamentali e nutritivi che al tempo stesso tentano di righermirlo e incapestrarlo facendolo soffrire terribilmente per la difficoltà ad adattarsi ad un vero, sano e adulto modo di vivere? L’infanzia è il burattinaio dell’artista? Lo è l’insostituibile amore materno? Sto sconfinando nell’involontario raffazzonato freudiano?  Renzo ha scolpito una strana maternità, una creatura acefala che partorisce un uovo ma in una posa che sembra ritenerlo, le ginocchia convergenti, e l’uovo stesso pare una goccia che si allunga e si assottiglia senza cadere. Ha racchiuso figure umane adulte in multistrati di cellophan placentare. Ama i luoghi protetti, mistici e claustrali. Ama chiudersi nei chiostri e fumare ascoltando i pensieri.

Matteo Fulimeni

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

2 Responses to “Tristi, tragici e belli.”

  1. Stefano Trussi scrive:

    Belle parole su un uomo che conosco superficialmente e del quale ricordo poco; ma Renzo è come la polvere: leggero, impalpabile, ma si deposita e resta. E fà strato dentro di me.

    Stefano

  2. cristina lombardo scrive:

    Siete partiti e avete lasciato una scia argentea di felicità. Conoscervi e passare con voi e tutti i partecipanti al workshop delle giornate dense di emozioni è stata un’esperienza “umana”.Questo è l’aggettivo che mi piace usare perchè gli uomini e le donne dovrebbero sempre vivere così.
    grazie e buon viaggio cristina

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