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Culi arrabbiati.

Trieste – Pordenone – Lasciamo il Cavalcavia e capiamo che ci eravamo affezionati al Cavalcavia, il nostro familiare alloggio e piccolo sottomondo di facce chiuse e scure e ambulanti\impertinenti comari, più presenze e ombre senza identificazione, e ci ricordiamo di fumate e briefing la sera tardi davanti alla rete di metallo a guardare, trafiggere ed essere trafitti negli occhi i\dai globi di luce del porto senza una racchiusa dimensione, erano fissi lampeggiamenti planetari,  una moltitudine prolissa di gru anchilosate e poi l’assenza anche acustica di ogni indizio di movimento, ma la mattina una nave cargo ogni volta già ben carica di container policromi pronta a salpare – i container sembrano regoli – pastelli policromi nelle nebbie portuali che vediamo bruciare solo dopo mezzogiorno, più o meno il momento di questa partenza.

Nel corso delle succitate interpolazioni visive ad abborracciati dialoghi filosofici,  qualche metro sopra le teste sempre più spettinate, e durante le notti mezze insonni dei giorni del Cavalcavia, questa volta oltre il precario diaframma del tettino da scrutare ad occhi sgranati nei momenti terribili e visionari, volendolo spogliare dei suoi inutili strati, il borbottio  camionistico del Cavalcavia – il Cavalcavia sempre in qualche modo gocciolante e dai sempre madidi cementi – il borbottio che scandiva rapsodicamente una specie di solitudine piena di cose dure e ferme come anime di metallo in piloni mezzi sbriciolati, viaggiatori notturni verso case e mogli, senza case né mogli, verso case senza mogli, con mogli senza case, uomini appena innamorati – me li immaginavo tutti in questo status germogliante, privo com’ero nella notte di ogni fantasia narrativa ma pieno della sua origine – che inciampavano continuamente sulle grate del Cavalcavia, provocando boati, sopra il nostro tremolante dormiveglia, io\noi in una specie di sgomento-dolcezza-contrasto-aspettativa, sarebbe a dire un rimescolio confuso di potenti moti sentimentali che, secondo ordini imprevedibili, si confutavano e si amalgamavano, continuativamente, alla maniera di un fluido in certe lampade magiche.

Ci mettiamo in viaggio per essere dirottati dall’intelligenza binaria di un navigatore – il binario tono della voce decisamente dispotico e insolente, di foggia femminile ma fatalmente inadatto a suggestioni libidinose – e presi nel raggiro di un imprevisto moto ascensionale, tutto un procedimento da raccontarsi, diluendolo, come una repentina svolta a destra ordinata dal navigatore, nel bel mezzo del trafficato centro di Trieste, città ancora assai devota ad avicoli ritmi sonno-veglia ( la mattina sveglissima!) su per una raffinata mulattiera triestina che conduce ad un finora inesplorato quartiere triestino – raffinatissimo. Direzione Barcola.  E siamo allo scorante, pausato traino del culo di un autobus di servizio – a metano e dai colori mal assortiti – che è per noi tutti la rassicurante prova di aver imboccato una strada percorribile dal nostro altrettanto grosso culo il quale, ne ho la prova riflessa, per sinuosi e nauseabondi chilometri, traina un noioso e sgomento trenino conga di culi più svelti e leggeri – culi arrabbiati. La strada è rinserrata da casette o villini, piccoli, stupendi, accoglienti e raffinati villini – raffinatissimi fortilizi colmi di piante da giardino che nelle ombre dei propri ranghi serrati assumono tonalità umide e nere: si immagina facilmente la terra dei giardini brulicare di lombrichi, fertilissima, fredda, nera e bagnata fradicia, senza un solo nuovo fiore. La gente fa dentro e fuori dai cancelli, intabarrata per scrupolo e disincanto all’interno di un giorno di apparente primavera.

Da quassù, ascendendo, il mare si proietta in alto lentamente, come una carta da gioco visionata con accorta segretezza prima di essere aggiunta al mazzo. E’ adulterato da grandi macule e lobi di un azzurro più sbiadito, e vi aleggiano veli nebbiosi nei quali, spettrali, lunghe chiglie d’acciaio praticano le loro incisioni. Man mano che la strada si concede agli ampi spazi di una pianura screziata di luce, lame e schegge di luce color tè che si gettano a capofitto su pareti diroccate in aperta campagna, sfuggendo all’assedio di fitti boschi dai colori funebri e sgargianti, focolari rosso vino che piombano dalle chine su schegge di roccia pallida e sbaffata di salmone, un cielo le cui fragili nuvolette salpano da un ciglio scuro all’orizzonte facendo il cielo di borotalco,  gli orizzonti dilatati si riempiono di pioppeti stroboscopici, ordinati noceti di un verde dorato, tarchiati lotti industriali, fumaioli lontani che rilasciano i loro straccetti di un bianco chimico, la maestosa e lasca solidarietà di enormi tralicci a dominare sulle chiome depresse di sconfitti salici piangenti.

Matteo Fulimeni

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

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