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Lorenzo il Magnifico.

Caneva (PN) – Non bisognerebbe sottovalutare le cave, e neppure questo incipit. Avrete tutti viaggiato su una strada veloce, fra dritte pareti di roccia continuamente imbevute d’ombra, a velocità più o meno conforme, e a tutti sarà capitato di fiondare oltre il finestrino acquamarina lo sguardo spento e immalinconito del viaggiatore su una montagna spogliata e dilaniata da esplosivi e scavatrici, e subito dopo di aver usato l’apparato fonetico per comunicare una  ferita indignazione a chi vi era accanto, che a sua volta avrà scosso concisamente il capo per aderire alla riprovazione nei confronti delle turpi gesta dell’uomo deturpatore. Magari, quella davanti ai vostri occhi puliti, era una cava di Carbonato di Calcio, come le tante che affollano più o meno palesemente – sempre meno palesi, sottoposte ad un ripristino boschivo contiguo all’estrazione –  la zona montuosa attorno a Caneva,  nel qual caso chi ha a cuore la vostra consapevolezza dovrebbe sentire il generoso impeto di suggerirvi quanto il Carbonato di Calcio e la sua estrazione siano fondamentali e il Carbonato di Calcio praticamente onnipresente: nel vostro sangue, nel telaio della vostra automobile, nel fondo stradale della strada sulla quale scorrono le ruote della vostra automobile e nelle solide mura della vostra casa, che di certo di paglia non è fatta. E’ soprattutto una questione di curiosità. C’è da dire che una pigrizia comoda e insinuante ci porta a confondere il  grande con il grossolano, la grammatica con la noia per la grammatica, in modo tale da sentirci liberi di compiere un puerile gran balzo verso le cose ritenute interessanti ( interessante è un termine sempre più teso verso la sinistra sinonimia con divertente ),  e all’ammirazione per una grande opera compiuta – un nuovo dirompente processore, un modello d’auto performante, un ciclopico  ponte a una campata – si accompagna l’assoluta disattenzione, e perfino il disprezzo, per il lavoro che ha portato al suo completamento, e per tutte le pertinenti implicazioni. Del ponte a una campata ci interessa l’architetto, il numero dei suoi divorzi, non ci interessano gli ingegneri. Dell’auto ci interessa l’uomo che ne ha curato il design, gli occhiali che porta. Del processore ci interessa Steve Jobs e il suo invito ad essere folli e affamati che citiamo per nascondere ragionevolezza e inappetenza. E’ il mito falso e romantico del genio individuale, che anche l’assodato tempo delle equipe non riesce a smantellare, perché è un mito paradossalmente ed efficacemente comodo e consolatorio, in grado com’è di mettere al riparo dalla verità incalzate che il genio non è lindo e purissimo talento, ma talento grezzo continuamente, estenuantemente raffinato da un sacrificio laborioso. Si tratta dell’alibi perfetto per evitare la stessa fatica, per spazzare via il rischio della consapevolezza, la possibilità di guardarsi attorno. Ma fate attenzione, il genio è soprattutto mestiere. Adesso, ad esempio, sono le nove di un chiaro mattino di Novembre, e, coi piedi ben piantati nel terreno duro di gelo che il sole intenerisce appena, un terreno rosso di terriccio che l’usucapione di un portentoso mezzo a cingoli, come un archeologo che spolveri un osso fossile, ha listato di calcare lucente scarsamente sepolto, domino con lo sguardo una profonda cavità bianca e farinosa, piena di salati luccichii, che finisce in un ovale parzialmente occupato da una virgola d’acqua bassa e ferma e due gialli mezzi scavatori, preceduti da un anso teso e consecutivo di turbina, dalla secca cadenza dei segnali di retromarcia, dai clangori degli spasmodici bracci meccanici che la distanza tramuta in fragore di frasche rotte, dallo sfrigolio asprigno dei cingoli che crepitano come un’infinità di duri e torchiati gusci di noce, muovono la loro mole mesozoica con risoluti e scattanti movenze da insetti – e l’aria sopra il tettuccio si arricchisce di una calda e cangiante allucinazione, in un virtuosistico, agitato passo a due, un tozzo caterpillar e uno snello escavatore, molte centinaia di quintali cadauno, il caterpillar che rimuove da una scura falda di scarto che cola giù come una morena da un versante più cauto della cava imponenti pugni di pietrisco e li affoga con uno scroscio assordante nella poca infiacchita acqua del laghetto, dal quale due grasse cannule nere risalgono fino alla pompa di drenaggio che zufola in continuazione come una fiamma ossidrica;  dopodiché l’escavatore comincia a distribuire il fresco mucchio di pietrisco e ad assediare il lago con la continua stratificazione  di argini precisi, dalla vita breve, che accumula l’uno sull’altro in tuffi ben dosati, assestandoli con veloci grattate dei denti della benna, appianandoli battendo a terra la benna come un pugno su un tavolo, con un tonfo potente, trascinando delicatamente il pietrisco a destra e a sinistra come ripulendo il tavolo dalle molliche, con una precisione millimetrica, e infine intingendo più volte la benna nelle acque del laghetto, predatoriamente, causando un piccolo maremoto, solo per smaltare alla perfezione la benna a beneficio di fotografia, quando l’omino dell’escavatore si accorge di noi. L’uomo che governa questo New Holland E485 da cinquecento quintali, che forma con lui una simbiosi incantevole e paradigmatica, si chiama Lorenzo Zanette, enormi orizzonti scolpiti negli occhi acquosi e rossi, orizzonti dei deserti dei metanodotti, delle terse e rigide prime mattine di giorni secchi e soffocanti, l’aspetto e l’atteggiamento estrosamente sicuro di chi è continuamente a contatto con la possibilità del pericolo. Chiunque sia stato bambino ricorderà vividamente la passione con la quale, reggendo per il tettuccio un escavatore delle dimensioni del nostro stomaco, ci dilettavamo ad aprire catastrofiche brecce in bastioni di mattoncini alti fino alle ginocchia, mentre con compiacimento intonavamo innocenti detonazioni. E’ la prima, eloquente e vivida manifestazione del desiderio umano di riplasmare il mondo ( scavare, fare a pezzi, ricomporre ), l’annuncio di ogni successivo sviluppo, delle sue fantasiose e imprevedibili sublimazioni: scrivere un poema, frequentare un corso di chitarra, iscriversi a scienze della comunicazione. Ma il vero virile desiderio infantile uguale per tutti è guidare una ruspa. E imparare a farlo bene, veramente, da adulti e nella realtà, quando cioè la ruspa è enormemente più grande di te, e la montagna che ti sovrasta mille volte più grande della ruspa, è una questione di arte e di mestiere. E’ questione di genio. In Lorenzo, quell’atavico desiderio infantile è rimasto intatto. Non è retorico quando sostiene che la sua più grande felicità la trova nel guidare mezzi molto grossi in modo tale da riuscire a spostare un’intera montagna nel corso di un giorno. E’ vero. E’ il bambino che guida la ruspa.

Matteo Fulimeni

 

© Giovanni Marrozzini

© Giovanni Marrozzini

2 Responses to “Lorenzo il Magnifico.”

  1. Giancarlo scrive:

    Bravo Matteo , riesci a commuovere quanto Giovanni.

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