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Era una pipì immaginaria.

Petriolo (MC) –  Nevicava, e sentivo Beatrice tossire nella sua stanza. Doveva essere intorno a Natale, non mi ricordo se prima o dopo, ma era un sabato notte; io ero all’ultimo anno delle superiori, e Sofia in prima media, ragione per cui in quel periodo quasi tutte le notti emigrava in camera mia, nonostante i miei veti, lasciando da sola Beatrice, e dormiva nel letto di Alice, l’altra nostra sorella che a Settembre di quell’anno era andata a studiare a Roma e tornava in treno eppoi in autobus una volta ogni due mesi, quando tornava. A diciotto anni ero molto bella, profondamente cresciuta, e, nel giro di poco, avevo persa per sempre la somiglianza quasi gemellare con le mie due sorelle minori, che faceva sembrare me più giovane e loro più grandi, e che tutti sottolineavano osservando le foto gradualmente meno opache dell’album di famiglia, con mio padre che si divertiva a fotografarci a scala, nel giardino, con indosso tutte quante un enorme cappello di paglia, gli sguardi affaticati dal sole estivo sopra nuvole di lentiggini. Nostro padre amante dello stereotipo fotografico della donna bucolica. Alice, invece, era bella a modo suo, molto diversa, e promettente, pratica, e fidanzata, ci diceva nostra madre riagganciata la cornetta panna a lungo amorevolmente ammansita, e provavamo un distacco freddo per lei, per Alice, come se non ci riguardasse più, o almeno io, distacco che poi attribuivo alle altre, per non sentirmi pessima. Volevo finalmente tutto il peso di essere una sorella maggiore, ad essere sincera. Beatrice aveva cinque anni, dormiva da poco nel lettino. Quel sabato notte i nostri genitori ci avevano generosamente sollevato dall’obbligo di partecipare a una noiosissima cena con facoltosi amici di famiglia – noi non eravamo facoltosi, ma per indole genealogica fatalmente attratti da chiunque si dimostrasse più facoltoso di noi e potesse farcelo pesare il più possibile – e credo fosse una di quelle arcinote cene che approdano in conversazioni noiosissime il cui languore viene sadicamente ridestato da una gentilezza e da una educazione  autoimposte che dipendono tutte dai rapporti di forza che esistono tra i commensali, una palla enorme e una tortura ipocrita, ma ci avevano lasciate tutte a casa, per uno strano, misterioso motivo – il cui mistero mi inquietava, davvero tanto, insieme al fatto ampiamente più concreto che alle due di notte non erano ancora tornati, e nevicava, per cui da quando mi ero messa a letto non avevo chiuso occhio, anche se per tranquillizzare Sofia avevo fatto finta di dormire quando l’avevo sentita entrare di soppiatto a piedi nudi nella stanza semibuia ed infilarsi come al solito nel letto perfettamente rifatto e quasi inamidato di Alice per dormire con me e sentirsi automaticamente più grande. Nella stanza c’era solo la luce della finestra, la tipica luce di quando sta nevicando, un misto fra un blu molto spento, un velenoso violetto e un grigio astioso. E quel silenzio che non contempla neanche il ronzio minuzioso e continuo solitamente attribuito al silenzio, come se la neve avesse succhiato via ogni possibilità di rumore. In più, la sensazione di non potersi fisicamente muovere da casa, di essere intrappolate qui, tre sorelle, una casa, una notte freddissima. Avevo lasciato le persiane spalancate sperando di addormentarmi piano piano guardando nevicare, ma dall’angolo del letto non riuscivo più a vedere i fiocchi ballare e zigzagare nel controluce dei lampioni chiari del cortile, vedevo solo una spanna grigia del tosto velo di nebbia di quando nevica, e perdipiù la finestra si era riempita di ramificazioni opache come lo zucchero, e tutto questo accresceva la mia inquietudine, insieme al fatto di non sapere quanta neve si fosse accumulata effettivamente là fuori, con i miei che non tornavano, Sofia che voleva crescere, Beatrice con la tosse, e i termosifoni al minimo. Quando Beatrice ha tossito, una tosse attutita che arrivava comunque pulita attraversando due porte e alcuni metri di corridoio,  mi sono rizzata su facendo frusciare sottocoperte e piumone, le braccia fuori dall’orlo del piumone, con le mani che artigliavano il piumone come una gonna da cancan, come se in realtà non aspettassi altro che un pretesto per allontanarmi dal letto, e nel letto di Alice, Sofia ha fatto lo stesso, più o meno, dimenando le gambe e agitando le coperte come farebbe la pinna di un’orca sconvolta, ma dalla faccia asciutta e tersa, con gli occhi grandi e tesi, si capiva che non aveva dormito neanche un minuto, nemmeno lei, e il suo passarsi la mano sulla faccia corrugata da un falso subbuglio era un altro dei suoi tanti modi per sentirsi più grande; i suoi capelli, però, erano veramente sconvolti; i suoi capelli neri, zingari e incomprensibili erano già i capelli di una donna dal futuro movimentato. “Sogna” – disse, sporcando di sonno la sua dizione. “Si, sogna, lo sai che sogna” –  le risposi, spaginando il piumone e buttando pesantemente fuori le gambe, un po’ intollerante verso questi suoi traslochi notturni, di cui mi aveva fatta complice riluttante, completamente disinteressati alla solitudine di Beatrice; ero infastidita dal suo egoismo, che ai suoi tempi non avevo potuto permettermi. Ma Sofia non dava idea di avvertire le vibrazioni ostili della mia risposta, e, mentre mi infilavo contemporaneamente le pantofole e un maglione, aggiunse un euforico commento sulla neve, con un candore incurante che richiedeva grande pazienza, regredendo allo stupore naturale della sua età e correndo verso la finestra, dove rimase, con la fronte appoggiata contro il vetro, soffiando contro il vetro, guardando poi gli aloni di vapore restringersi molto lentamente fino ad un centro che spariva. E sorrideva, e diceva che ce n’era un sacco, tantissima.
Dal corridoio potevo vedere l’abisso buio del piano terra, minacciosissimo, zitto, una cambusa di incubi che ancora riusciva a provocarmi le lievi scosse e i brividi elettrici e il gelo sottopelle di quando avevo l’età di Beatrice e la sete mi obbligava ad arrivare almeno alla camera dei nostri genitori, dove potevo implorare nostra madre di scendere di sotto, senza confessarle apertamente la mia paura del piano di sotto, e finiva che era papà ad andarci e a tornare con il bicchiere d’acqua imperlato – ma mai nessuno che abbia pensato di prendermi semplicemente per mano fin là sotto – e ancora oggi devo sforzarmi di muovere lo sguardo verso qualche altro punto, anche se l’angolo del mio occhio, in preda alla tentazione, finisce inevitabilmente per guardare in faccia ciò che più mi spaventa della casa. Da quando era nata, a nessuno suonava bene accorciare il nome a Beatrice; Bea la faceva sembrare una bambola, e Bice era antiquato e ammuffito. Ascoltare i corridoi e le stanze riempirsi di quel nome pronunciato sempre interamente rendeva tutti gli ospiti ansiosi di scoprire e conoscere Beatrice, che, d’altra parte, con la sua apparizione minuta e paffutella, svagata e di porcellana, ormai collaudata e funzionale, forniva il crisma perfetto a tutte quelle aspettative. Beatrice si gettava sulle ginocchia della mamma e se ne stava lì ferma, seduta sulla mamma seduta sul divano, senza mai partecipare, persa in un mondo completamente estraneo che aveva un contatto con quanto le avveniva attorno solo attraverso la sottile e sconcertante patina dei suoi occhi vacui e un po’ angelici, grigi, dei quali tutti astrattamente si complimentavano, e il suo sorriso sembrava sempre reagire a mille immaginarie peripezie che niente avevano a che fare con quanto la attorniava.
Mi aspettavo che la tosse di Beatrice fosse per via di quel sogno ricorrente che le era iniziato a luglio, quell’anno lì, quando, stando al suo racconto, una mattina di colonie che facevano il bagno sulla riva, un microteppistello le aveva tenuto la testa sott’acqua finché la sua amichetta Daniela, stando al racconto di Daniela, era corsa a chiamare la maestra che si era distratta, Donatella, che stando al suo racconto non era affatto distratta, e che poi era intervenuta sul microteppistello, che si chiamava Jonathan, e il padre di Jonathan era famoso per avere un enorme e insolente tatuaggio nazista, si diceva, e portava sempre gli occhiali scuri, e si chiamava Amilcare. Da quel luglio ogni tanto Beatrice sognava di affogare, e tossiva di conseguenza, senza svegliarsi. Ma quando mi presentai in camera di Beatrice e Sofia, e Sofia mi era poi venuta dietro a piedi scalzi lungo il corridoio buio facendo un umido cic-ciac sul pavimento di parquet, trovai Beatrice sveglia ( eravamo praticamente tutte sveglie ), che mi dava le spalle in piedi davanti alla finestra zigrinata dal vapore. “Hai sognato?” Beatrice ha pronunciato un no mozzo e pensoso che non la distoglieva dalla finestra, affacciata sul lato stretto del cortile, quello che toccava il cortile dei vicini – tossiva per il freddo che prendeva a stare lì, e mi accorsi che in basso aveva il pigiama bagnato. La sollevai per le ascelle, da dietro, e il suo corpo fin troppo rigido, che non accennò proteste, pur tendendo istintivamente al paesaggio oltre la finestra, che lei continuava a fissare ossessivamente, piano piano si acquattò al mio corpo con l’abbraccio meditabondo di un koala – Sofia glielo guardava fare, e aveva suggellato la sua regressione buttandosi in ginocchio sul tappeto a giocare con le bambole di Beatrice, una delle quali con la testa parzialmente decapitata, non da lei. Cambiai Beatrice, che poi si sentì scappare altra pipì. Mi sono seduta sull’orlo della vasca, con il mento tra le mani. Mentre aspettavo che finisse – era una pipì immaginaria – Beatrice disse di avere diritto alla sua privacy. Io dissi a Beatrice che era molto ingiusto parlare come sentiva parlare alla tv. Andai alla finestra, questa qui rivolta verso il lato lungo del cortile e la strada, con la siepe dove al ritorno da scuola si vedevano sorgere le enormi cesoie di nostro padre, raffinatissimo cultore della sua siepe, e la siepe era totalmente oscurata dalla nebbia magenta, mentre nevicava a scatafascio contro i lampioni, e due palme piccole e tristi avevano i rami tutti piegati da un morbidissimo spessore, e la neve nel cortile era così compatta e precisa da far pensare a un materasso con il suo pulito, stirato e immacolato coprimaterasso, fiocchi di neve apocrifi si imprimevano rabbiosi contro il vetro della finestra, con un ritmo da centrifuga, e sembravano piccoli animali erbivori stranamente più socievoli del resto della mandria. Era strano: pareva che il vento non soffiasse.
“Hai fatto?”
“Non ci dovevano passare” – disse Beatrice, indignata e inquieta, sulla tazza.
“Che dici?”
Beatrice disse che non si doveva passare sulla neve mentre cadeva,  e che il manto era stato inesorabilmente rovinato da qualcuno che invece l’aveva fatto, e che si vedevano le brutte impronte sul manto prima intonso nel cortile. Le parole usate da Beatrice non includevano né inesorabilmente, né intonso. Io le dissi che mi ero appena affacciata e la neve era perfetta, e che domattina sarebbe stata perfetta e che l’avremmo rovinata facendo un bel pupazzo di neve. Beatrice gridacchiò dissentendo, col pigiama pulito, ribadì la storia delle impronte, eppoi mi strinse forte la vita, con quella goffaggine infantile dovuta alla bassa statura, come se dovessi andarmene per tantissimo tempo e mi stesse comunicando che le sarei mancata tantissimo. Ho dovuto trattenere qualcosa di simile alle lacrime. Di là, Sofia si era infilata nel letto di Beatrice. Sia Sofia che Beatrice mi invitarono a dormire con loro nel letto di Beatrice; dissi inutilmente che non se ne parlava proprio. A Sofia piaceva intrecciare le sue gambe alle mie, e Beatrice continuava a fissare crucciata la finestra, e io guardavo il soffitto con le coperte fino al mento quando fu richiesta la favola, non ricordo da chi. Non conoscevo favole, e raccontai così la storia di una pianista di successo che per una maledizione lanciata da una pianista molto meno talentuosa non riusciva più a distinguere una nota dall’altra, e tutte le note le suonavano come un La, e non solo a lei, ed era molto triste e sola, almeno finché non incontrò un meraviglioso accordatore sempre in giro col suo diapason nel taschino che nel La riusciva a sentire le sfumature di tutti gli altri suoni e i due vissero felici e contenti. Sofia dichiarò di non apprezzare la storia, ma senza argomentare, poi stette in silenzio due minuti e chiese che fine avessero fatto i nostri genitori. Non seppi dire niente di più di un fra poco tornano. Beatrice ripeté quella storia delle impronte nel cortile. Poi, preoccupata di qualcosa che aveva probabilmente saputo da una prima immersione onirica, mi domandò perché non ballassi più (all’epoca ballavo). “Non è vero che non ballo più”, risposi sottovoce, con neutra sorpresa, nella nostra intimità. La casa era intensamente silenziosa. Sofia dormiva già. E adesso è arrivato il momento di raccontarvi quello che è successo dopo che udimmo la grande finestra al pianterreno andare in mille pezzi.

Matteo Fulimeni

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

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