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Oggi verrò fucilato.

Trieste – Sono alla Risiera di San Sabba, in un ambiente orrendamente simile a un mattatoio, glaciale, con duri mulinelli di foglie a graffiare il pavimento di cemento ( un omologo di quei freddi, penso, protetto da due maglioni e un cappotto – e i guanti, la sciarpa), davanti a una delle tante teche di compendio, che racchiude questa fotografia:

 

 

© Giovanni Marrozzini

Chamberlain, Daladier, Hitler e Mussolini ad un incontro diplomatico. Sul volto di tutti, il distorto senso di responsabilità di chi sta per portare alle estreme conseguenze un secolo di pretestuoso sciovinismo, ideologie giunte alla sclerosi assieme alle loro obsolescenti avanguardie; una specie di predestinazione nelle maniere, un pericolosissimo stiamo-facendo-la-storia che oggi esamineremmo insospettiti e sterilizzeremmo nel ridicolo, velocissimi; e poi, la decisiva mancanza di ogni senso dell’umorismo, l’aria torva degli scacchisti preoccupati soltanto di vincere la partita – Mussolini che indaga diffidente con lo sguardo, il cranio disadatto che sfida le leggi fisiche, Hitler. Sogno che sotto la giacchetta di Hitler, che pare cascargli larga, si nascondano natiche pallide e flaccide, e la sessualità disfunzionale di un pervertito che sposa solo psicopatiche. Hitler suscita una morbosità ( interi canali satellitari, e uscite in edicola, e la frase che ho appena scritto ), che è un po’ il cascame di quella propaganda mirata a dotarlo di un’aura peculiare o simbolica (Il lupo), e che adesso, man mano che i fatti si allontanano da noi, assume un’altra forma: l’enigma. Il fabulismo maturato attorno a questo omino che senza l’ecatombe nel curriculum sarebbe stato destinato all’anonimia, ad una vita più o meno ordinaria in qualche ridente vallata alpina, è senz’altro l’esasperazione massima di quel favoleggiare seducente che edifichiamo di continuo attorno a tutte le comprovate figure criminali – per paura di essere come loro, e quindi astrarle, inserirle in una narrazione per allontanarne la nebulosità, troppo simile alla nostra, e rendere ogni aspetto del criminale perfettamente dipendente da una logica causa-effetto, in un tripudio di fantasiosissime anamnesi. E’ così facile guardare quest’uomo e immaginarsi l’orrore di quegli anni come una folle materializzazione su larga scala delle sue nevrosi!  Osservando la foto, quella foto, e muovendomi nella Risiera, combinando poco a poco alcuni elementi delle mie riflessioni, credo di intuire il perché. A differenza di tantissimi altri dittatori ugualmente sanguinari, Hitler ha un aspetto fisico che più esplicitamente di tutti manifesta le due ambizioni del tiranno: infliggere una punizione e cavarsela ( sfuggire alla propria punizione ). E’ facile: le mani giunte in grembo come uno scolaretto disciplinato, sottomesso;  le cattive intenzioni di un istitutore squilibrato nel rodato  magnetismo dello sguardo – il magnetismo di un inetto. Questo dualismo non traspare, ad esempio, in Stalin ( che sembra piuttosto una bestia ferocemente permalosa ), né in Mussolini ( che incarna il machismo). In Hitler, dal suo aspetto, affiora invece, limpidissima, la viltà. E in ogni atto dell’opera nazista, come di qualunque altra dittatura, traspare la viltà: la preoccupazione di occultare ( i cadaveri della Risiera gettati in mare, in grossi sacchi, la distruzione del forno crematorio, e prima ancora le menzogne sul destino dei materiali di costruzione –  le fosse comuni, i desaparecidos), frodare macabramente ( “Il lavoro rende liberi” ), confondere ( l’architettura della Risiera, che oggi riconosco come la tetra architettura dei lager, ma che all’epoca non doveva apparire diversa da un imponente complesso industriale), lavarsi la coscienza – come racconta quest’altra foto, in un’altra teca:

 

© Giovanni Marrozzini

In cui si capisce che, assieme alla delega della coscienza alla macchina burocratica in modo da non percepire più l’atrocità di atti disumanizzanti, la morte dei prigionieri veniva, nella maggior parte dei casi, attribuita ad un generico logoramento (Durata media di vita: 9 mesi), sicché non appare più chiaro in che modo assegnare le colpe, a chi, e perché. L’occultamento nella sua forma più raffinata: la parcellizzazione delle azioni in modo tale da sfuggire alle categorie della giustizia umana, e il lavacro della coscienza: non essendoci più un responsabile, né una responsabilità, non c’è più la colpa in sé: tutto è possibile.

Perché credo che al tiranno appartenga una continua e narcisistica paura della morte, tale da richiedere un obnubilamento, e un oblio, cioè l’unico modo di depauperarla di ogni angoscia, di farla sparire; infliggendo la morte a una moltitudine, abitudinariamente, essa smette di possedere un senso determinante sul piano individuale. Ed è affrontare la morte togliendole ogni significato e angoscia che frega le dittature e i dittatori, e li destina sempre al finale competente. Lo suggerisce la prossima immagine, in un’altra teca ancora:

 

© Giovanni Marrozzini

 

Un’impiccagione punitiva, di massa, e di civili, che poi vengono lasciati, secondo la barbara metodologia, ostensivamente appesi, come dissuasivo. Senza voler apparire esecrabile, oggi, a me, questa immagine non comunica immediatamente terrore, ma qualcosa di più forte, come una specie di audace dolcezza. I capi delle vittime giacciono reclinati sulle spalle dei compagni di martirio, in un sonno sacro e solidale, che ricorda quello degli emigranti sulle navi: un deterrente si temibile, ma una mossa falsa, in cui ogni dittatura finisce per incappare, perchè in questa fotografia la morte acquista un valore potentissimo, che annulla la paura della morte ( gli emigranti sono coraggiosi ), e rende la morte stessa un atto fondamentale della vita, rivelando così quanto il terrore di morire appartenga più al carnefice ( il cui destino è, di fatto, sempre una fuga: l’esilio, il suicidio ), che alla vittima, non solo inviolabile, ma feconda anche nella morte, e nel martirio ( nei messaggi d’addio dei condannati a morte non c’è mai nessuna allusione alla paura di morire )

Le vittime sono sempre inviolate. Qui alla Risiera, c’è un monumento, nel cortile interno, molto intelligente. E’ una lunga fumata, composta da travi di ferro sfalsate, la cui ombra si allunga sul muro opposto, come una meridiana, evocando il comignolo del forno crematorio  e, al tempo stesso, solidificando una colpa troppo rarefatta. Ma scopro di non amare i monumenti, solenni almeno quanto i crimini. Ci sono, piuttosto, incastonate nella parte della Sala delle Croci ( si chiama così, e suppongo fossero dormitori, ma ne rimane solo lo scheletro di massiccio legno nero ), due minutissime vetrine o scrigni, dove stanno ordinati, sparuti e lievi, alcuni effetti personali dei prigionieri: pince-nez, pettini, fermagli, tre posate sottili, un anellino tutto ossidato. Questi oggetti non sono scalfiti, emanano calore, intangibili, animati dalle storie dei loro possessori, suscitano mondi, vivono. Continuano a vivere malgrado tutto. Niente li può inghiottire.

Matteo Fulimeni

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

6 Responses to “Oggi verrò fucilato.”

  1. g scrive:

    Grazie Matteo
    per le tue raffinate riflessioni
    ossigeno per la mia mente
    Grazie Matteo

  2. cristina lombardo scrive:

    perfetto

  3. renzo scrive:

    1)ho guardato —- 2)ho letto

  4. Luca scrive:

    “bel” racconto!

  5. Alessandra scrive:

    Sappiate che vi ho inseriti nel mio blogroll. buon proseguimento!

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