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Duemila chilometri a nord.

Porto Sant’Elpidio (FM)

Trascurabili annotazioni sulla vita e le stravaganze di una cheta cittadina di provincia.

Incipit vittoriano. Più o meno:

Fino al tardo mattino, e anche dopo, vale a dire all’ora del convito, fra le dodici e le tredici, almeno per le più rispettabili fra le nostre famiglie, e più tardi ancora, nel lilla oneroso di un vespro crudele sopra la nostra stempiata viuzza, segnato dai neri fumaioli del progresso, ahimè, ma specialmente alle sette e mezza, al primo vociar del galletto ruspante nell’orto, ora in cui mi avvedo della mia supinità nel giaciglio, ed inizio ad aggirarmi con molto intontimento per la casa, attorniato da una servitù solerte, e, subito dopo, fra le otto e le dieci, periodo che impegno, seguendo il fulgido esempio dell’esimio signor Pickwick, a raccogliere impressioni, quotidianamente, sulla cheta cittadina di provincia, per i miei studi misconosciuti, sempre al centro di indegno lancio di ortaggi e turpi canzonature, tutta la cheta cittadina di provincia m’appare come dietro una aurea zigrinatura…    

Basta.

Voglio scrivere un pezzo sulla vita di una cheta cittadina di provincia, una cittadina cheta, di provincia, tale da annettere un buon numero di cliché notoriamente attribuiti a tutte le chete cittadine di provincia – ma mi accorgo di non sapere cosa scrivere. Il che dimostra con una certa efficacia quanto la mia vita nella cheta cittadina di provincia sia lussureggiante, vivace e imprevedibile.  

Mi limiterò a qualche rapido appunto.

Il luogo comune secondo il quale la vita in una cheta cittadina di provincia è una vita noiosa, è vero.

Ma è altrettanto vero che il generale, assiduo e ingiustificato atteggiamento di ostentazione di questa stessa noia è, a sua volta, disgraziatamente noioso, banale, poseur, ipocrita e rivoltante. Ripetere ad alta voce: l’ostentazione della noia provata è organica alla noia subita. Ripetere interiormente: Sto davvero facendo qualcosa per meritare di andarmene?

In effetti, la maggior parte dei giovani cittadini di una cheta cittadina di provincia, stabiliscono con quest’ultima un equivoco legame edipico, e sviluppano quella varietà di ribellione continuamente esternata ma raramente attuata, riproducendo così su una scala più ampia la famosa dinamica del figlio che mangia a sbafo dei genitori e gli urla contro che li odia, arricchita dal corollario dell’invidia verso quelle città meno chete di cui in ogni conventicola di giovani si favoleggia senza sosta ( New York, Tokyo, Fukushima ), che a sua volta riproduce, in un perfetto parallelismo, l’invidia per le famiglie degli amici: più ganze, più fiche e più divorziate.

– Voglio studiare a Niuiooooorc!
– Eccoti il danaro per l’iscrizione a un corso di nuoto, figlio mio.
– Ma almeno un corso di velaaaaa!!!
– Le cose bisogna sudarsele.

I vostri amici cheti e di provincia possono tutt’un tratto rivelarsi individui paradossali: dopo essersi dimostrati spaventosamente noiosi e monotoni e ripetitivi e carenti di ogni creatività  per un numero imbarazzante di anni, con abitudini da grassi curati di campagna, con voi ormai callosi alla cosa, rassegnati e spenti, che vi siete procurati un breviario, improvvisamente avvertono l’impellenza di lunghe sortite notturne, trasgressive e risqué, verso luoghi e confini che prima del nuovo progresso tecnologico ( la mia macchina del babbo ) ed etico ( la patente) sembravano inaccessibili.  

– Allora? Salite sulla mia macchina del babbo, o sulla sua macchina del babbo?
– Non lo so. Tu che fai?
– …
– Perché tu non decidi mai niente?
– …
– Decidetevi.
– Ma dove andiamo?
– Al Pecoroni.
– E dove sarebbe?
– Duemila chilometri a nord.
– Decidetevi.
– Basta seguire il piccolo carro. Seguirlo, seguirlo.
– Ma sono le cinque del mattino, pensavo…tu lo sapevi che volevano andare al Pecoroni?
– …
– Allora?!
– Ma è tardi!
– Decidetevi
– …
– Non secondo le mie stime: se partiamo adesso, saremo al Pecoroni per le due di domani notte.
– Ma cos’è? Tu lo conosci il Pecoroni?
– …
– Decidetevi
– Alle due spaccate secondo i miei calcoli, e potremo alimentare la piccola folla radunata davanti all’entrata del Pecoroni, locale a quell’ora praticamente inaccessibile, come una cellula necrotica, e stare lì a congelarci senza motivo, guardandoci negli occhi, con la mano che fa presa attorno a una bevanda, commentando femmine non alla nostra portata.

Oppure:

– Ciao, amico mio, vorresti venire con me in piscina, quest’oggi? E’ una giornata così calda…
– Dici al grande parco acquatico?
– No, dico in piscina, quella di fronte alla tua casa.
– Pensavo il grande parco acquatico.
– Lo sospettavo. Ma mi tocca ricordarti che il grande parco acquatico si trova in un altro Stato.
– Lo so. Ma adesso che ho la mia macchina del babbo, disdegno i brevi cabotaggi, per così dire.
– Ma c’è lo scivolo rosso! Ti ricordi quanto ci piaceva percorrerlo da capo a piedi gridando follemente, adocchiando le belle curve delle donzelle, e il lento saluto di tua madre dal balcone, con la sua cornucopia di gerani?
– Certo. Ma che senso ha, ormai, percorrere uno scivolo rosso, quando con la mia macchina del babbo posso percorrere le infinite iridescenze di tutte le strade di questo mondo? Preferisco starmene a casa.
– Ho capito. Ma mi tocca farti notare che…
– Sottostò al paradosso. Buona giornata, amico.

Come per certi rivoluzionari, fricchettoni, aspiranti dittatori eccetera, ogni cheta cittadina di provincia non ambisce a cambiare la propria essenza ( e intendo i pregiudizi, il moralismo, l’autoindulgenza ), ma il proprio status. Mossa da un oscuro e stupefacente senso di colpa\inferiorità, ogni cheta cittadina punta ansiosamente alla propria emancipazione con la stessa ingenua, superficiale convinzione di chi è sicuro che basti fotografarsi davanti ad uno scaffale spumeggiante di libri, per dimostrare di averli letti tutti ( anche a se stessi ).

Questo significa: gli eventi culturali, le serate culturali, i dibattiti, gli esperti, le giurie qualificate, le manifestazioni, i concorsi, le serate culturali, le giurie culturali, le serate esperte, i dibattiti qualificati. Sottoposti, sovente, ad incresciosi episodi, spiacevoli contrattempi, rovinosi fuoriprogramma. Brilla fra tutti quello di quando invitarono Arthur Rimbaud ad un dibattito intitolato  “Le buone letture – un piacere che migliora la vita, e la rende più bella. Dite la vostra!”. Conservo ancora l’articolo:

Vergogna Arthur Rimbaud!

Il famoso poeta si denuda in pubblico e orina in faccia alle autorità.

Qualcuno lo aveva preannunciato, ma era stato subito tacciato di malignità. Eppure nessuno, nemmeno il più maligno, poteva immaginare che sarebbe finita così. Ieri sera, al convegno “Le buone letture – un piacere che migliora la vita, e la rende più bella. Dite la vostra!”, l’ospite d’onore, Arthur Rimbaud (nella foto), celebrato scrittore di fama mondiale, ha offerto alla cittadinanza uno spettacolo deprecabile. E pensare che la serata sembrava essere partita sotto i migliori auspici. Rimbaud era di buon umore, accolto calorosamente da un pubblico entusiasta, foltissimo, venuto ad ascoltare le parole del grande scrittore. Nessuno poteva presagire quanto sarebbe accaduto. “Purtroppo abbiamo gravemente sottovalutato l’aspetto forse più rilevante del suo carattere: la sua totale follia” – ci ha detto l’Assessore ai libri belli,all’arte propositiva e alla critica costruttiva, rammaricato. Nel corso della serata, che prevedeva un reading, durante il quale il poeta si è leggermente mutilato ( e qualcuno, c’è da dirlo, ha lasciato la sala ), l’irritazione di Rimbaud si è fatta sempre più palpabile. Diversi esponenti del pubblico hanno voluto prendere la parola per incalzare il grande poeta sulle motivazioni della sua scrittura, senza evitare domande scomode. Fra queste, quella di un ex tossicodipendente che ha voluto chiedere a Rimbaud se la sua letteratura non fosse troppo amorale e nichilista; e quella di una signora sui quaranta, che si è lamentata del fatto che la poesia di Rimbaud verta tutta sull’inferno e mai sul paradiso e la speranza. “Conosco bene l’inferno, il paradiso per niente” – la sua risposta. Qualcun altro ha voluto chiedere al grande poeta che cosa intendesse esattamente con la sua famosa esternazione “l’unica cosa insopportabile, è che niente è insopportabile”. Il disagio di Rimbaud, che i più attenti hanno notato salire nel corso delle domande, è esploso improvvisamente: Rimbaud si è abbassato i pantaloni, è salito sul tavolo, e ha orinato in faccia a tutte le autorità, minacciando con il getto della sua orina chiunque provasse ad avvicinarlo. Poi è fuggito via, calandosi da una grondaia. I carabinieri, allertati, stanno ancora battendo la zona con le unità cinofile. L’assessore, costernato per l’accaduto, non si è però lasciato scoraggiare: “ Il signor Arthur Rimbaud si è comportato da gran maleducato. A tutti i ragazzi presenti in sala non sarà certamente giunto il messaggio che auspicavamo, ma forse uno ancora più forte, e possiamo esserne lieti: si può essere geniali quanto si vuole, ma non si può prescindere dall’educazione e dal rispetto per il prossimo. Quanto alla nostra cheta amministrazione, non prenderemo mai più in considerazione il nome del signor Arthur Rimbaud per i nostri eventi culturali. Pensiamo, inoltre, che la letteratura debba essere propositiva, la critica costruttiva e inviare messaggi positivi, e sicuramente il signor Arthur Rimbaud, con il suo gesto sconsiderato, ha disonorato non soltanto la nostra città, ma la letteratura stessa, e noi auspichiamo che il suo ruolo nel mondo della letteratura possa venire riconsiderato alla luce di questi fatti incresciosi.”

Matteo Fulimeni     

 

 
 
 
 

© Giovanni Marrozzini

 

 
 
 
 

© Giovanni Marrozzini

 

 
 
 
 

© Giovanni Marrozzini

 

One Response to “Duemila chilometri a nord.”

  1. Alessandra scrive:

    Ho vissuto abbastanza da sapere (e sperimentare con traslochi vari) che l’Italia è tutta provinciale.
    Sinceramente non so se aggiungere ahimè.
    E comunque dovrà cambiare. Per forza.
    W la follia.

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