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Spruzzi d’acciaio.

Sesto San Giovanni (MI) – Brianza. Vale a dire un dedalo grigio fumo di autostrade, tangenziali, circonvallazioni, svincoli, snodi,  pensili ed ipertestuali cartelli verdi, raccordi e bretelle scanditi da un’assiduità di barriere e caselli i cui abitanti taciturni e intravedibili  tacitamente pretendono e riscuotono la loro gabella; un cielo la cui invernale tavolozza si attaglia alle tinte di quanto si trova sotto la sua egida;  autostrade, ponti e cavalcavia continuamente percorsi da possenti mandrie di autocarri, da utilitarie che zigzagano come antilopi braccate, strepitando di paura, dal dispotismo dei Suv che sbuffano ed estorcono sorpassi; svincoli che con impropria dolcezza si tuffano in una poco allettante broda di capannoni traccagnotti, depositi occhiuti, abbacchianti stabilimenti – un angoloso spessore prefabbricato irrorato di lunghe opache file di auto parcheggiate che si adagia a perdita d’occhio su una terra  che soggiace a tutto, rassegnatamente, le cui piccole marginali pezze nere osservano i lontani viaggiatori con la malinconia sbigottita dei dannati, assediate da un parcheggio, da una stradona, da un capannone, senza tregua.  E’ vero: la natura, avventizia e fortuita come in nessun altro posto che mi sia capitato di osservare, qui pare, quando prevale, davvero fuori luogo, una possibilità che si è stabilito di escludere, di non prendere più in considerazione. E’ un fatto di sopravvivenza: Valery non volle amare più, e l’orgasmo (uno “starnuto”) non ha più interessato Pascal. Solo in un altro modo può andare peggio: quando la natura si presenta come il risultato di un occasionale innesto umano, ispirato con molta probabilità da un rigurgito di coscienza legato a vaghi timori metafisici da tacitare alla svelta – miseri parchetti che offrono un contentino di ligia vegetazione, vivacizzati da dune posticce, e che, sfioriti, riescono a deprimere come una promessa inadempiuta – allora l’effetto è, dirompente, di pena: il recinto chiuso dopo l’inflazionata fuga bovina: una calvizie combattuta da trapianti inefficaci e più antiestetici della calvizie stessa: la figura pessima del parente che si presenta al capezzale del moribondo per incoraggiarlo. Mi accorgo che esiste un’infinità di esempi pittoreschi per i rimedi inefficaci. In aggiunta ad ovvi cieli grigi e clacson isterici, Brianza significa diverse altre cose, altrettanto ovvie, cose affratellate da una enfatica sinonimia: cuore dell’economia, pompa del benessere, bancomat della nazione, motore del progresso, eccetera. Sessant’anni fa la forza trainante dei poli industriali del nord ci traghettava da una società di tipo arcaico-contadino alle mutate condizioni ed esigenze di una società industriale e borghese, eppoi, nel corso degli ultimi trent’anni, mentre ci andavamo trasformando in qualcosa di ancora diverso, i miracolosi sacrifici necessari a garantirci tutto ciò di cui oggi possiamo godere e pensiamo di poter godere per decreto, sono stati omaggiati da un manipolo di oculate generazioni a suon di gozzoviglie, baccanali e berlusconi. E’ curioso, ma non inspiegabile, che la stessa terra che ama vantarsi della propria efficienza-produttività-zelo stacanovista-rigore-serietà abbia partorito e portato alla ribalta il maestro supremo di ogni edonismo lobotomico. C’era, mi sa, bisogno di una vacanza. L’eredità del boom, che televisivamente si esprime nella formuletta “la quinta potenza industriale al mondo” è ormai un orgoglioso vanto da sfoggiare con lo stesso piglio sconfitto di cui un allenatore si serve  per dar morale ad una squadra di vecchie glorie rattrappite sotto di cinque gol dopo il primo tempo; oppure, peggio, un ipnotico ritornello al quale certi leader di partito parzialmente fuori uso e dalle confuse vocazioni ricorrono per coprire il parassitismo di figli che trovano in singolari pseudonimi ittici un perfetto pretesto per rendersi simpatici e accettabili agli occhi del nutritissimo stuolo di vassalli più o meno avveduti. Ora, questa è una terra schizofrenica: un degrado dilagante, una immigrazione fuori controllo e un’oligarchia sardanapalesca dedita solo all’autopromozione e allo sfarzo sconsiderato tengono in ostaggio una classe media che, come tale, si conserva nel suo benessere mediocre e illusorio, gingillandosi, vivacchiando, reagendo come può, o arrendendosi ai soprusi dei nuovi signorotti. L’università non è che l’araldico vestibolo di gelide aziende dalle logiche spietate pronte ad indottrinare con i loro precetti disumani menti giovani e fiduciose e a testare la psicologia dei nuovi dipendenti per sincerarsi che siano dotati di quella follia che, come diceva bene quello, consiste nel perdere tutto fuorché la ragione. Per molti l’università è un passatempo, per altri l’opportunità più grossa di lasciare l’Italia, per alcuni non serve a niente ed ha sostituito il servizio militare, ma con più campari e meno astinenza. Durante una passeggiata notturna a Sesto San Giovanni, la città mi ha dato l’impressione di essere lasciata al pattugliamento di strane, sospette gang, e che la gente fosse letteralmente asserragliata in casa. Sesto è stata la sede delle acciaierie Falck, immense, di cui ora non restano che padiglioni rinsecchiti sparpagliati musealmente sull’esteso territorio di quella che era una vera e propria cittadina parallela, oltre duemila lavoratori, e che si approvvigionava direttamente alla ferrovia, secondo i canoni delle industrie pesanti del dopoguerra, industrie mastodontiche e feconde suscitatrici di quegli imponenti flussi migratori che ci hanno irreversibilmente cambiato i connotati. A vederli, gli scheletrici capannoni, trasmettono un senso di epica maestà ancora efficace, sembrano cattedrali, e se si prova a confrontarli con i tozzi prefabbricati di oggi, pare di paragonare un talamo e un letto a castello, la vecchia austera camera dei nonni e la cameretta dei bambini, la cameretta ikea. La toponimia cittadina è inestricabilmente legata alle acciaierie, alla sua storia e ai suoi fondatori, ci sono ancora le casette a schiera che erano gli alloggi degli operai, persino i parchetti verdi hanno a che fare con l’acciaio e con le travi, ma la nuova urbanistica si adegua all’ideologia corrente, e un colossale centro commerciale nato senza mercato vede fiorirgli attorno palazzi mostruosi che glielo forniranno: è il marketing che si cementifica, non il semplice desiderio da soddisfare, ma la creazione di un desiderio che poi verrà lautamente soddisfatto. La forma solida di un concetto liquido, e Bauman dicendo. Alessandro Giannini vive ad Usmate, a qualche chilometro da qui, il suo cuore è a mezzo servizio dal 1994 e dal 1956 al 1985 è stato primo assistente all’acciaieria Falck ( Giannini assieme al suo cuore ). Nel 1985  si è improvvisamente licenziato dopo trent’anni di religiosa dedizione al lavoro, per motivi che lui attribuisce ad un non meglio precisato disgusto. Il disgusto di Giannini, per Giannini, ha i suoi precisi responsabili, che sono, di volta in volta, il cambio di rotta nella politica societaria, gli amministrativi che sono subentrati ai tecnici, i computer che hanno sostituito gli operai, i sindacalisti sempre più pretenziosi  – tutte motivazioni che, se ci si pensa, non hanno a che vedere l’una con l’altra, ma tutte quante con la fine di una stagione. Ho una teoria sul disgusto di Giannini. Ora, ciò che riempie Giannini di ammirazione, è il grande fermento dell’economia indiana, la sua enorme e variegata ricchezza umana, speziati battaglioni di giovani indiani pronti a fare del loro meglio sulla scena mondiale ( tiene spalancato il libro di Rampini e ce lo mostra con ardimento ): è chiaro che vede nell’India la rievocazione di un processo simile a quello di cui è stato protagonista, e nei giovani, ambiziosissimi indiani, qualcosa che si contrappone alla mollezza alla quale ci siamo ridotti noialtri, che scarichiamo le serie in lingua da torrent perché siamo cosmopoliti. Giannini ora è un uomo anziano, mite, spiritoso che, come dice lui, ha rinunciato ad ogni preoccupazione terrena e vive rassegnato – ma non preparato – alla morte. Nelle foto di qualche anno fa è invece un uomo virile nel senso antico, di fibra robusta, la cui virilità nemmeno un grosso paio di occhiali dalla spessa montatura e una acuta stempiatura riescono a scalfire. Uno di quei padri ai quali non ti saresti mai azzardato a dire una parola fuori posto perché il suo manrovescio avrebbe strutturalmente posseduto una potenza atomica. La sua virilità assomiglia a quella di mio nonno, che però era comunista, e per un po’ tento di immaginare un confronto tra i due, ai tempi, e so per certo che sarebbe stato un agone strepitoso e pieno di rispetto, come poteva esserlo il confronto fra intellettuali di opposte inclinazioni al tempo in cui ancora esistevano gli intellettuali. La moglie lo esorta a raccontarci dell’acciaieria. “Eeeh! Ma lì era un po’ un inferno!”- esordisce. Siamo arrivati qui per ascoltare i suoi aneddoti nutriti da una sorta di arrogante aspettativa; quasi pretendiamo, da questi racconti, che contengano fatiche disumane, soprusi dickensiani e incidenti raccapriccianti, ma Giannini supera le aspettative. “Giannini, di tutti i suoi anni di servizio qual è il suo ricordo più bello?” “ Più bello in che senso? Quando potevo lasciarci la pelle? Quando sono stato sfiorato da quello spruzzo d’acciaio incandescente?”. Gli spruzzi d’acciaio attentatori li tiene incorniciati e ce li mostra, cercando di individuare, con gioia infantile, quelli che più gli rassomigliano a questo o quell’animale.  Giannini era primo assistente, e quindi gestiva una squadra di 236 uomini, che chiama ancora affettuosamente “i suoi ometti”, con il tono commosso che potete immaginare. Il paternalismo di Giannini non è di quelli che offendono la ferita sensibilità di un giovane borghese contemporaneo temprato più dagli studi che dalla vita; ciò che, invece, affascina morbosamente, è il frasario bellico ( “sono sempre  stato in prima linea” ), e il saldo, rispettoso attaccamento ad una realtà che Giannini non sa descrivere con aggettivi che non siano triste, pauroso, pericoloso, massacrante, assordante e male illuminato – “ma,poi, quando ero lì, quello era il mio mondo!”.Ecco, in che senso? Questo è la domanda. Gli stessi incidenti sul lavoro, persino le gambizzazioni, mi si presentano in testa con quella frenesia anfetaminica di cui sono dotate certe narrazioni massimaliste, a riprova del fatto che sono stato svezzato dalla televisione più bieca e dal cinema più ricreativo. Mi sento un cazzone. Ma la domanda mi assilla. “Lei ha provato a cercare un impiego?” – domanda Giannini. So di non potergli rispondere che ho fatto tre mesi di lavoro durissimo e maleodorante perché mi servivano i soldi per una Nikon D80, la cosa avrebbe una doppia sfumatura di futilità: il lavoro duro, che potevo evitare, e il bene superfluo, che come l’aggettivo suggerisce…“No”. Giannini mi guarda sorridendo; e pian piano gli esempi in cui Giannini riversa il suo ambiguo amore per il luogo in cui si sacrificava rovinandosi la salute si moltiplicano. Giannini si sfila gli apparecchietti acustici e quelli mandano un sibilino creaturale. “Io potevo mettermi le cuffie, ma mi chiamavano continuamente al telefono. Avrei potuto avere una pensione per l’udito, ma non l’ho voluta”. Arrivo a sostenere che la vera devozione di Giannini non fosse rivolta a quel lavoro, a quel progetto, a quell’azienda, a quei dirigenti – “Giorgio Falck si appollaiava sulle sedie come su un trespolo. Una volta ho sbirciato in una riunione ed era seduto così, non ho mai chiesto perché” -, sostengo invece che la sua fosse un’incrollabile fede nel lavoro in sé, un voto quasi calvinista, una ricerca di redenzione e merito, l’amor di sé che scaturisce dalla consapevolezza di ciò che si fa e permette così di affrontare armati la vita. In più, una vena romantica quasi melvilliana, nei suoi racconti presenta l’acciaieria come un pericoloso metabolismo, un nume da blandire e combattere, indomito e cieco, davanti al quale esprimere la propria audacia e la propria deferenza, mettere alla prova esperienza, astuzia, perizia, sperimentare la fortuna. L’acciaieria è il gioco della vita, dalle cui regole, una volta scelte e accettate, è vietato uscire ( il rigore, l’equità, il rigido senso della gerarchia che Giannini si vanta di aver posseduto; ma anche la strana, singolare presenza dell’incoscienza, della morte come entità quasi astratta, dalla quale si è sorpresi come se non dovesse mai presentarsi, ma che poi si accetta con un autocontrollo a me non chiaro ). Invece è chiaro perché, ad un certo punto, il disgusto di Giannini: i grandi mutamenti non cambiavano solo le regole di un sistema, ma i dogmi di una fede. Nessuno può vivere senza una fede. E ogni fede è dogmatica.  Esattamente come le ultime due frasi. Arriva il momento in cui un uomo si sottomette ai dogmi che ha scelto, e ne sopporta il peso, persino il ristagno, e l’attrito che provocano a contatto con il mondo e con i dogmi degli altri. Senza la fede non avrei scritto queste due paginette, davvero, e ora ho fede che abbiano senso, e che qualcuno possa ritrovarcisi. La fede detta le scelte, che senza la fede non sarebbero possibili. Ma scegliere è escludere, provocare e provocarsi dolori, e adesso, mentre sfogliamo le fotografie, la voce di Giannini propone una sorta di gutturale rimorso agglutinato al rimpianto. Quella specie di inespiabile, addipanata colpa strisciante che si tende a suggerire lasciandola inarticolata, affidandosi all’acume ricettivo dell’interlocutore, perché così deve essere, perché i propri dogmi vanno difesi anche se sappiamo che sono dogmi, e che fanno male, e perché in fondo gli uomini meritano di essere perdonati: “Chissà i miei ometti come mi accoglierebbero, oggi”- dice Giannini con quanto detto nella voce. Giannini, ho capito che intende, credo di aver capito.

Matteo Fulimeni

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

In alto, da sinistra: Perito industriale Mascalzoni, Vice Maestro Forno Colombo, Assistente Cecchetti, Vice Caporeparto dott.Perego, Caporeparto ing. Fratini, Vice Caporeparto dott. Cavagnari, Assistente Giuzzi.

In basso, da sinistra: Primo Assistente Alessandro Giannini, Capo Fabbrica Laini, Assistente Cancellieri, Assistente Tribolo.

 

 

© Giovanni Marrozzini

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