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Cinque bambini indiani.

Bolzano

I

Su consiglio di una tabaccaia, prendiamo il due davanti al cimitero, fino a Piazza Domenicani, nel centro esatto di Bolzano. E’ buio già da un po’, quel buio irreparabile dell’inverno nei posti molto freddi, il moderato caos delle strade periferiche accresciuto dalla precarietà della sera, un brivido di solitudine prodotto dai nervosi fasci dei fanali, il cielo una bolla cobalto con uno spicchio sempre più sottile di fioco chiarore – è una terra povera di tramonti, che già il primo pomeriggio provvede a sostituire con una lunga, arcana ombra, liquida e aliena – nel quale si distinguono ancora (nel chiarore), per via di un nero più marcato, le cupe sagome dei brutti monti qua attorno – monti demaniali, trascurabili, senza qualità, che devono essere belli solo incappucciati dalla neve, forse solo dalla prima. L’autobus è illuminato con la luce rappezzata e polverosa dei posti pubblici, ma alle sette di sera è già semivuoto, l’ululato smorzato, con le vecchiette serie, e perciò più accogliente e familiare, adatto alle trance malinconiche delle sere d’inverno, alle nostalgie masturbaorio-sentimentali, al malfermo far perno della tempia contro il finestrino sudicio; ci si può inoltre distrarre con lo spettacolo di cinque bambini indiani con le frangette color china e gli occhi a confetto che si servono dello snodo dell’autobus ( è di quelli lunghi ) come il surrogato di un tagadà, sottolineando le perdite di equilibrio, enfatizzando gli schianti contro le pareti gommose, il provvidenziale trattenersi alle balaustre, alle maniche dei cappotti gli uni degli altri. Ridono. Penso al tagadà, alle tozze lampadine delle giostre, al dimenarsi davanti al camion dei panini e alla stupida coercizione e ansia sociale dell’adolescenza che non voglio mai più provare in questa vita. Penso a una mia amica che si lascia praticare massaggi shiatsu dalla fisarmonica della metropolitana. Due ponti, due fiumi: l’Isarco, il Talverna, dal letto sottile, che scoppietta, sul quale si discernono, colpite dalle luci di luminarie stucchevoli e megalitiche, veloci ed eclettiche cateratte spumose. Le strade che scorrono fuori, assestate, geometriche, austriache, con gente impegnata solo a tornare a casa, molto severamente, e arricchite di borse della spesa, non sono più italiane, ma neppure europee. Si avverte una cosa diversa, una specie di appagato raccoglimento, da ragazzo di buona famiglia, esperto solo del proprio ambiente, come se il grembo dei monti conferisse a questa città di confine un bizzarro alibi edipico che la rende visceralmente attaccata al suo dorato isolamento.

II

Dato che esistono due sole reazioni alla disponibilità delle alternative – l’angoscia e l’arroganza – un popolo di confine non può che essere in tre soli modi: o molto baldanzoso o molto depresso o in tutti e due i modi.

III

Ma poi, perché già agli esordi della nostra passeggiata, questa, fra le città nordiche visitate ultimamente, ci è sembrata la più calda, la più rassicurante? Titillava il nostro bambino sopito, il nostro bisogno di carezze? Ero venuto qui armato di un pretestuoso attacco per un feroce articolo che proponesse l’abolizione del Natale, ma le luminarie disseminate in centro erano aeree, sfavillanti: leggeri archi a tutto sesto inghirlandati, una spolveratina di luce su giovani piante rachitiche di un nero ripugnante. Ci siamo caduti con tutte le scarpe. L’albero di natale c’era anche qui, inevitabile, ma andava bene! C’era l’architettura, cordiale, graziosa, con gli intonaci acquerello tra di loro intonati, e che non era quella di una città, ma quella di un mite villaggio di montagna dove al mattino ci si sveglia al suono dei campanacci: il dorso delle persiane spalancate era fatto aderire alle pareti, come nel disegnino che si farebbe di queste case. L’Edipo era ben visibile: la città ci teneva a mostrare il suo lato innocente e giocoso. I mercatini di Natale, poi, di cui mi avevano detto. Mi avevano detto: “Matteo, a Bolzano ci sono i mercatini”. “Ah”, avevo detto io. Sono tutti qui per i mercatini, c’è una gran folla, allegra di una allegria sana, da sommelier, da degustatori di vita. Locali, ristoranti, birrerie, cioccolaterie a bizzeffe, gallerie commerciali, la strana  immagine di ragazzi e ragazze che sorseggiano liquori da tazze fumanti strette con tutte e due le mani. Nei pub gli avventori stanno stipati, letteralmente, e con gaudio, e oltre i vetri appena opachi si intravedono maglioni svasati cadere e adagiarsi su serpeggianti schiene femminili. Nel ristorante in cui mangiamo, che ci viene descritto come il luogo della boheme bolzanina, i cibi locali, e i loro accostamenti, suscitano i più salaci doppi sensi, che tutti evitano di sottolineare, anche quando nel piatto si combinano un wurstel e due canederli; e in effetti nella sala sembrano tutti molto arrapati, e hanno luogo corteggiamenti espliciti, le gambe si accavallano continuamente, s’intrecciano come radici, le occhiate e le interazioni sono frattali, imprevedibili, nel bagno c’è un distributore di profilattici e persino, appeso a un chiodino, il libro degli ospiti che, a dispetto delle mie previsioni, reca, nella sua occasionale compilazione, le più nobili e prestigiose domande metafisiche, stilate in calligrafie sismografiche: a contatto con le proprie bassezze fisiche, l’uomo si interroga con doloroso tremore sulla propria misteriosa natura.

IV

Il giorno dopo il due è così pieno che, nella zuffa, i pendolari sono costretti a rivendicare acrobaticamente sia il diritto ad obliterare che il diritto a non morire stritolati. I gomiti sprizzano fuori da una massa di cappotti e colpiscono duro. C’è una giovane donna, sull’autobus, di quelle odiose, quelle con la faccia fertilizzata dal fard, invecchiata wildianamente, bronzea di abbronzature innaturali, rughe autoprocurate da una smania modaiola, il pellicciotto bianco, una naso Federico Da Montefeltro, ingioiellata, con occhiaie screpolate sotto agli occhi celati dagli occhialoni e soprattutto quella triste, equivoca convinzione che sproloquiare ad alta voce, scagliarci addosso opinioni abominevoli,  ed inveire – nelle innumerevoli telefonate o rivolta alla sua compagna di viaggio, più moderata nella schifezza solo perché più pudica, ma orgogliosa della sua amica impudica alla quale delega le sue ambizioni sovversive – inveire con una ironia a dir poco zoppicante contro la plebaglia sull’autobus sia il segno della sua emancipazione, piuttosto che della sua maleducazione organica e mostruosa. L’odiosa donna dell’autobus non so se sia un prodotto dei cinepanettoni o un modello umano preesistente , può sembrare una conclusione sciocca ma è così, ne sono convinto, ha a che fare con questo: in un mondo dove le narrazioni si adattano sempre di più ai gusti del pubblico, il pubblico pigramente si adatta alle narrazioni, che però sono modellate sul gusto del pubblico e quindi si riadattano, col pubblico che si rimodella, in un apatico amplesso fra Oblomov e l’acqua di rose, e via così in un circolo vizioso che, nei suoi esiti più raffinati, produce soggetti come questa donna odiosa sull’autobus, la donna volgare e spocchiosa che, qui, sono pronto a scommetterci una gonade, mentre il gomito di una suora mi trafigge crudelmente, legionariamente il costato, se le dicessi dei cinepanettoni, se ne direbbe inorridita. Ma che società è la società di questa donna odiosa sull’autobus, che sa solo accampare pretese sul sentito dire, sguazza e grufola negli stereotipi e incarna senza accorgersi la parodia di un modello verso il quale ostenta ripugnanza? Basta, fatemi scendere.

V

Una città bilingue, tuttavia, è una città in cui persino l’atto di chiedere un’indicazione è capace di rovesciare le tue previsioni: è facile che quell’italica faccia da furfante ti fornisca informazioni nella lingua di Goethe, e quindi una città bilingue è una città che impone dubbi e obbliga  ravvedimenti, in cui anche le stronze sugli autobus meritano una seconda chance.

Matteo Fulimeni

 Le fotografie sono state gentilmente concesse dal Circolo fotografico “Tina Modotti” di Bolzano

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

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© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

3 Responses to “Cinque bambini indiani.”

  1. Silvia scrive:

    Che bello avervi qui.

  2. Alessandra scrive:

    buon anno, ragazzi. Vi meritate proprio una pausa. Grazie di tutto…
    A.

  3. Guido Dall'Olio scrive:

    Ben ritrovato Matteo!
    Ogni tanto mi chiedevo dov’eri, ma solo ora ho provato a cercarti.
    Mi piace (anche) la tua scrittura. Appena ho un po’ di tempo vengo a leggermi anche tutto il resto. Buon anno!
    E complimenti anche al fotografo.

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