© Giovanni Marrozzini

Roma è dappertutto.

Albano Laziale (RM) – Per l’uomo che vive nella roulotte, il dinoccolato, la pelle sabbiosa e pallida stesa sugli zigomi dirompenti, con l’impressione di crepe che si schiudono, i rumori, sempre gli stessi, e puntuali, vogliono dire che il mondo attorno non ha intenzione di scivolare via, né la roulotte; l’indomani, l’uomo che vive nella roulotte può spazzare il solito sproporzionato semicerchio attorno alla roulotte incerottata di scotch con la ramazza lesionata, cospicuo dono dei due netturbini delle sei, quelli che, rovesciando costipati bidoncini pronti a spalancarsi bulimicamente sulla vasca di contenzione, eppoi disposti ad essere deposti svuotati ed esausti su un marciapiede sfatto, nel ritmato botta e risposta di un canovaccio popolare, si dichiarano all’alba di ogni giorno un fraterno e inossidabile amore reciproco. I treni notturni passano come temporali lontani. Le musiche del luna park si spengono molto tardi, elettriche, e valgono solo come promesse o congedi per ragazzi dai volti tesi da promesse o delusi da congedi. Mai troppo delusi. Nel pieno della notte capita sempre l’auto che burrascosamente compie il giro del parcheggio, con una futilità rabbiosa che allude alle imprecazioni di chi la guida. Le auto che sulla strada poco lontana transitano veloci qualche volta si lasciano dietro un distinto codazzo di musica napoletana. Pur dormendo, rigido e supino, l’uomo che vive nella roulotte sa fare le sue distinzioni. L’auto che con dolcezza arriva e si parcheggia ben oltre le tre ha il motore che gorgoglia di soppiatto, segno che la ragazza è china a fare un pompino al suo ragazzo, il ragazzo con il piumino d’oca ancora addosso e le mani spiegate sul volante, a palmi aperti, nella posa di una frazione di secondo prima dell’impatto. Il mattino dopo, non lontano dal bordo del semicerchio, smaglianti scatolette straziate e infradiciate giacciono sull’asfalto, quattro bandiere sventolano civettuole, e il cielo laziale ha la sua consueta correzione di latte, mentre grandiose sagome di aeroplani appena decollati da Ciampino si inclinano virando e danno mostra della bianca pancia di ranocchia. E’ sempre così, il cielo sopra Roma, sempre in apparente procinto di rompere in singhiozzi, ma non succede quasi mai. Forse per la resa a un ricatto vile di una cosa che eccede in bellezza, e in persistenza della bellezza – le cupole concepite attingendo alle armonie sublimi di menti chiarissime per ratificare, grimaldello perfetto, un potere crasso, ributtante e palingenetico, quelle cupole che ancora, seppure annerite, si impongono (profilandosi contro una fascia di cielo inscurita dal gioco d’ombra dell’orizzonte) sui casermoni delle lontanissime periferie – il cielo diurno si screpola gradualmente, spalanca feritoie e squarci rabbrividenti di luce, si terge fino a che, all’imbrunire, non assume il tono azzurro minerale di un vetro molto spesso, contro il quale sciabolate intermittenti di storni formicolano silenziose e volubili come un primitivo salva schermo. Eppure, anche da graziata, Roma è dappertutto, tirannica e dominatrice per indole genetica o per tenace abitudine, dopo due millenni dispone i suoi gonfaloni e i suoi avamposti molto lontano da sé, marca il suo enorme territorio, fa capire in casa di chi si entra e chi è che ancora comanda: pini venerandi e tufi allagati che faticano a sparire, allontanandosi dai parcheggi di fuliggine e dagli svincoli affollati, e che ricompaiono come persecutori dalla memoria di ferro, sicché pare, una volta che con certezza ci si è sottratti alla concreta influenza di Roma, di essere già lontanissimi, in territori selvaggi, e che mentre ci si invischia, percorrendo la gentilezza di un colossale cavalcavia che, chissà come, rende meno appariscente la salita, fra le pareti velate di foschia di monti sempre più rastremati di languore mediterraneo e sempre più arcigni, con stupendi paesi indorati di infuocata luce radente, che mentre si è già nel cuore di questo paesaggio, quello che è dietro sia stato soltanto Roma, anche quando non era. E che quello in cui si è non è altro che la zona franca ai confini di un implicito, perseverante impero.       

Matteo Fulimeni

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