Tursi – La Rabatana ( MT ) – La sera, le pietre di La Rabatana si liberano del calore ed emanano un aroma caldo, saturo di umidità. La chiesa è intonacata di rosa corallo ed ha un rosone che sembra un rombo di materia fusa e una croce che sembra una doppia ascia. Qui l’odore è floreale. Tre rondini garriscono impettite sul cavo della luce, poi si lanciano. Due di loro formano una coppia e fanno una giocosa scia elicoidale. Ci sono scorci che non ci credi, come il vecchietto che riposa su una sedia sotto una pergola dopo un arco a sesto acuto fra colori pittoreschi. Il richiamo dei colombacci è in qualche modo agghiacciante, come uno che riemerga dall’acqua dopo essere rimasto sotto troppo a lungo. Molte porte sono sprangate. Certe case ormai da tempo evacuate. Ci sono stretti spazi in cui hanno ricavato degli orti. Ne vengono odori balsamici. Scendendo in basso si arriva fino ai bordi del tufo. Di sotto, metri e metri a precipizio. L’angolo del sole, a quest’ora, fa sfavillare il canyon come rame. Le ombre si attagliano alle superfici con esattezza impeccabile. Le foglie del fico accennano ad avvoltolarsi, e i frutti, ancora acerbi, sono duri, verdi e tuberosi.
Da queste parti c’è stata una bella baldoria genetica. E puoi così avere la straniante sorpresa di scoprire su visi dalle linee tumide e carnose e di indurita e affumicata sebosità mediorientale piccoli e glaciali e inaspettati occhi glauchi o azzurri o trasparenti.
La sera, le pietre di La Rabatana si liberano del calore ed emanano un aroma caldo, saturo di umidità. La chiesa è intonacata di rosa corallo ed ha un rosone che sembra un rombo di materia fusa e una croce che sembra una doppia ascia. Qui l’odore è floreale. Tre rondini garriscono impettite sul cavo della luce, poi si lanciano. Due di loro formano una coppia e fanno una giocosa scia elicoidale. Ci sono scorci che non ci credi, come il vecchietto che riposa su una sedia sotto una pergola dopo un arco a sesto acuto fra colori pittoreschi. Il richiamo dei colombacci è in qualche modo agghiacciante, come uno che riemerga dall’acqua dopo essere rimasto sotto troppo a lungo. Molte porte sono sprangate. Certe case ormai da tempo evacuate. Ci sono stretti spazi in cui hanno ricavato degli orti. Ne vengono odori balsamici. Scendendo in basso si arriva fino ai bordi del tufo. Di sotto, metri e metri a precipizio. L’angolo del sole, a quest’ora, fa sfavillare il canyon come rame. Le ombre si attagliano alle superfici con esattezza impeccabile. Le foglie del fico accennano ad avvoltolarsi, e i frutti, ancora acerbi, sono duri, verdi e tuberosi.
Salvatore Di Gregorio ha raccolto cortecce di queste valli per farci un profumo. Voleva sintetizzare la sua terra così. Cosa che poi effettivamente ha fatto. Si chiama Rabatà, il profumo. Te lo spruzzi e ti sembra di avere addosso l’aroma di un ultra-agrume: limone, arancio, mandarino e qualcos’altro che non so, e vorresti morderti la mano per quanto è dissetante. Capisco poi la differenza fra essenza e profumo, che è molto semplice, e sarebbe che l’essenza è per il profumo quello che l’elettrone è per l’atomo, oppure, meglio, l’atomo per la cellula e così via.
Nei bastioni di tufo si aprono delle grotte. Sul pavimento delle grotte c’è un greto di pietrone malferme. Non si capisce se queste grotte sono robe antiche o diavolerie turistiche. Sotto al pavimento scorrono cavi della luce. Alle pareti ci sono loculi rotondi e grandi e catacombali. Le pareti sono istoriate da acqua e vento – che qui si infila tiepido e teso – e graffiti. Le aperture in fondo ad ogni sala danno sull’ampio paesaggio dall’altra parte. Dalle arcate piove una luce azzurra.
Matteo Fulimeni