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Godere senza pagare – parte seconda.

Sirolo (AN) – Dall’ultimo terrazzo guardo la spiaggia con una specie di sollevato piacere e nepentico oblio. E’ una virgola di sassi stretta da due torrioni di calcare gessoso, bianco e lucente, sulla cui sommità ondeggiano senza sosta i pini. Due gruppi di ombrelloni a bande bianche e azzurre oppure maggioritariamente verdi disegnano due sorrisi sulla spiaggia ciottolosa, e un molo parte dal fondo sud e sembra voler sonorizzare la grande C della baia. Vicino al molo c’è un deposito di imbarcazioni, avvolte in teli di plastica bicolori. Il mare, ora, è diviso in due perfette, nette campiture: un verdino frizzante vicino alla riva, e un blu cupo nei pressi dell’orizzonte, così maestoso da fare soggezione, da far mancare il fiato.  E’ pieno di gente, dentro e fuori dall’acqua. Le turiste si fermano qui e osservano. Anche i turisti, comunque.   

Ciabatto fra i lettini, in un giretto ispettivo. Incollati alla parete rocciosa, ci sono gli stabilimenti balneari. Sono vecchi edifici in muratura che culminano in un villino giallo limone che adesso è un albergo a due stelle, dal quale si diparte una lunga ala come carceraria, praticamente incassata nella roccia. Ricavati al suo interno, grandi vani con lunghe sbarre: depositi tipo gabbioni, dove c’è di tutto, dall’attrezzatura subacquea alle imponenti montagne di lettini e sedie a sdraio e seggiolini e tavolini e persino barbecue affumicati, in grandi, disordinate ammucchiate spiacevoli a vedersi, che sanno di stantio, di masserizia da soffitta tra la quale a nessuno più interessa rovistare. Ci girano coltri di mosche. Non so di preciso quale sia la funzione di questi spazi, alcuni si celano dietro tele cerate che ondeggiano flemmatiche frusciando, e in basso s’intravedono polpacci e caviglie femminili; altri sono palesemente delle rimesse per i pescatori; ma  non è chiaro, forse si affittano per gli scopi più vari, e io non ho il coraggio né sono abbastanza idratato da affrontare la sudorazione copiosa che il superare l’imbarazzo di azzardarmi a chiedere ingenue delucidazioni al riguardo comporterebbe: ho paura di fare la figura dello stupido ( di cui sostengo l’impatto inevitabile a malapena sulla pagina scritta eppoi, per il vostro dispiacere, pubblicata ). In più sono solo, e rimuginare in solitudine sulla propria pessima figura è un esercizio nevrotico piuttosto invalidante. Invece devo osservare, pensare, catalogare. Comunque non so dire a quando risalga l’enorme costruzione – il villino, l’ala coi gabbiotti sormontata dai casotti, altri padiglioni più a sud coi bar e i ristoranti – ma ora come ora sarebbe impossibile violare così questo spazio naturale – forse. Sicuramente i prezzi, qui, rendono il posto frequentabile ai più solo per brevi periodi, per quelle che il sociologo del tg2, dopo aver riposto il mocio nello stanzino, chiama levacanzelampo,  ma non è punto vero che Sirolo sia un luogo d’elite. Questo non è Porto Cervo. La grande congerie di carne umana sfrigolante fra la quale mi aggiro ha una composizione plurale e gustosamente democratica, che ti mette a tuo agio, senza spocchie, senza briatori o bellezze inamidate fuoriuscite da un catalogo lucido di victoria secret sfoggiando labbra tirate da lenze invisibili. Sono tutti schiettamente normali, uomini e donne. Italiani e stranieri. E’ un meravigliosa, spudorata esplosione barocca di forme: pelli tese o cadenti, colli irti o smottati, pance che scoppiano o costolature eclatanti, spalle grandi o a punta, deltoidi potenti o clavicole aviarie, rotoli di ciccia o profili canoviani; culi carenati, culi scolpiti, culi geniali, culi bucherellati, culi di burro, e comunque un sacco di culi, come nei film di Gigi e Andrea. In più l’interminabile catalogo di sfumature delle abbronzature: quella scialba e quella eccessiva; quella color caffè, quella color tizzone; l’abbronzatura mal distribuita, quella innaturale, da doposole; quella misuratamente ideale; quella sensualmente armonica; l’abbronzatura color sik, l’abbronzatura ambrata; quella color casseruola smaltata e quella color nesquik. Eppoi, ogni tanto, certe epidermidi così bianche e traslucide da riflettere la luce del sole e accecarti. Il bagnino che mi accompagna allo sdraio, la cui efficientissima acribia, quasi cruciale, potrebbe essere un paradigma del perché Sirolo è in realtà una località balneare rispettabilissima ed eccellente, ha la schiena così abbronzata che sembra una braciola di maiale: ci crescono sopra lunghi peletti biondi. Per dire dello scrupolo: il mio sdraio è già sistemato nella posizione ottimale al bagno di sole, e cioè verso sud, direzione che scruto lungamente e con indicibile languore, supino, schiena a quarantacinque gradi, fissando l’avanzata immobile di una nube lenticolare, nel vocio inevitabile ma rispettoso della spiaggia e lo sfarfallio crepitante degli ombrelloni. Eccomi qui, finalmente un po’ di mare.

Anche su questa spiaggia, assecondando il mio sciocco vezzo di isolare elementi sclerotici nelle persone che finiscono dentro al mio campo visivo di bagnante bloccato nella più pigra delle immobilità, isolando questi elementi e riplasmandoli in scherzosi nomignoli frasali tali da rendere ognuno di loro una buffa e tragica macchietta, anche stavolta, qui, si possono facilmente riconoscere personaggi strani che fanno cose o indossano qualcosa o hanno la faccia di in gran quantità, e che amiate questo espediente ( peraltro manieristico) o nutriate, di fronte a quanto sta per seguire, una rancorosa e muta compassione per il sottoscritto tale da farvi increspare le labbra dietro al monitor e desiderare che mi renda conto da solo della mia totale idiozia e la smetta, finalmente, procedo dunque ad un succinto elenco, forse inutile, di certo sessista, dei tipi da spiaggia che adocchio in questa mattinata calma e tranquilla di mezza estate. Uno per uno: Il Ragazzino Che Palleggia Da Solo; il Neonato Con La Bandana; La Strepitosa Ottantenne In Topless Con Il Tanga; La Donna Con La Mitria; Il Bambino Che Sbaglia Sdraio E Mi Chiama Babbo; Il Pappone Pieno D’Oro; Quello Spaesato Che Sembra Rüdiger Vogler; L’Uomo Mollusco; La Ragazza Che Fa Il Bagno Senza Bagnarsi; Il Poeta Andaluso Coi Baffetti Alla Gable Che Guarda Storto Le Donne…

Può sembrare singolare o prevedibile, ma il tuffo in mare è un cerimoniale traumatico a cui la maggioranza, diciamo i tre quarti, della popolazione di bagnanti presenti sulla spiaggia manca di sottoporsi. Il mare non ha alcuna caratteristica straordinaria, è discretamente torbido, oltre che popolato da alghe, spugne raggrinzite e varie, sinistre e spettrali ramaglie. S’infossa quasi subito, e quando il sole si copre c’è una specie di vuota inalazione che fa ammutolire la spiaggia dentro a una luce crepuscolare che rende l’acqua incolore e l’aria giallastra. Qualcosa che procura sollievo e angoscia, come l’evocazione di un’eclisse di sole senza fine.

Cerco di riconoscere, in qualche modo, l’essenza dell’esperienza del bagnante. Nel suo svelto e gustoso reportage etnologico dedicato a La Baule, Marc Augé la descrive come un’occupazione capace di restituire concretamente la percezione del tempo, del suo passare articolato in lunghissimi minuti e ore che volano. Io, per quel che mi riguarda, guardandomi attorno, ne faccio, secondo il mio stile,  una pesantissima, opprimente e potenzialmente deprimente questione esistenziale. Stare sotto il sole, schiacciati supini sotto il suo pesantissimo, trivellante calore di stella gialla, è per certi versi un modo molto particolare di verificare i limiti delle proprie aspirazioni, dove le aspirazioni sono in questo caso canalizzate in una specie di agognato,  pluriricercato anelito a una pace impossibile, a un relax totale. Ecco il bagnante supino sullo sdraio; lo vediamo appellarsi a un dormiveglia implausibile, nel baccano e nel caldo asfissiante. Chiude gli occhi ma le palpebre si rifiutano di serrarsi ermeticamente. Ecco il fuoco rosso che si accende sotto le palpebre e si gremisce di ragnetti scuri e nervosi. Credevamo i muscoli e i tendini filisteicamente ridotti alla più totale mancanza di tensione, blandi e rilassati e in vacanza, ma invece ci accorgiamo improvvisamente che sono di nuovo tirati, all’erta, e c’impegniamo a scioglierli ancora. E dobbiamo riaprire gli occhi troppo rossi. E muovere un piede addormentato. E così in un continuo, estenuante e regolare palpito che ambisce a decomprimere lo stress psicofisico ma immancabilmente fallisce; uno strenue, continuo sforzo teso ad un galleggiamento amniotico, alla fine del quale, come spesso si vede, ci si rompe le palle e si fa qualcosa di interlocutorio, tipo mettersi seduti, parlare con qualcuno, osservare lo sciabordio della battigia; solo un intervallo  prima di un nuovo tentativo, rimettendoci giù con un’ostinazione sia stolida che immemore, perché questa battaglia per uno stato ideale sembra svolgersi al di là della nostra consapevolezza. E’ come se Prometeo fosse anche l’aquila che gli becca il fegato.

Un piccolo appunto finale che valga da appendice alla dualità Prometeo\Aquila del bagnante in quanto uomo. Risalito in paese, afflitto da una pesante e pulsante aritmia, ho perlopiù evitato ognuno dei ristoranti: le ricette che fossero anche solo appena più sofisticate di un semplice e – scritto così sui menù – desolante, disgustoso, e miserando “spaghetto al pomodoro” presentavano prezzi a dir poco elefantiaci.( Un banale trucchetto psicologico in virtù del quale nessuno mai sceglierà lo spaghetto al pomodoro, dal momento che costa la metà di ogni altra cosa nel menù ed è sospettosamente isolato e sottostimato allo stesso modo in cui potremmo esserlo noi che lo scegliamo ). Così il mio pranzo, per oggi, è una piadina industriale col prosciutto crudo che fa acidità 99 volte su 100 e una coca-cola annacquata. La barista, che nel frattempo civetta con un avventore fustacchione, dichiara di aver bisogno di una lunga vacanza. MA – dice – “ Tutte le volte che cerco di stare un pomeriggio senza fare niente va a finire che faccio qualcosa”.  Quod erat demonstrandum, e in più piadina + coca cola = nove euro. Ho conservato lo scontrino. Lo userò per indurmi all’espressione di rabbia sbigottita durante la prossima seduta di psicodramma.    

Matteo Fulimeni

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

2 Responses to “Godere senza pagare – parte seconda.”

  1. Marisa Caniato scrive:

    …….nonostante tutto questo mi fai venire voglia di mare!!!

  2. s. scrive:

    …vacanze italiane…tutte le estati lo stesso posto. da quando si e’ piccini. eppure, in ogni fase della nostra vita quei posti assumono una valenza diversa…

    quando comincio a leggere quello che scrivi e come se qualcuno aprisse un sipario e lo spettacolo ha inizio : )

    Mi piace da morire la foto della ragazza col tatuaggio sul piede. Sotto di lei, sulla roccia sembra esserci l’abbozzo di un suo ritratto fatto a carboncino. O lo vedo solo io? buon viaggio….

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