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Venti giorni di luminosa letizia.

Castiglione sul lago (PG) –  Uno dei massimi esperimenti di felicità è essere portati in salvo, pensa, mentre l’uomo che è suo padre sosta bruscamente nel piazzale davanti al lago, dove c’è una cabina del telefono, e scende. Dice che deve fare una telefonata e scende, avvolto nel cappotto che indossa con una precocità quasi raggelante, dice che arriva subito e mentre scende, con pesantezza, l’auto, il motore ancora acceso, l’auto ha un leggero sobbalzo, mentre si aggrappa (suo padre) alla portiera con la schiena curva, un piccolo singhiozzo, che fa pendant col minuscolo rantolo di dolore di suo padre che scende dalla macchina e che si avverte dentro allo scheletro ( il leggero sobbalzo, il piccolo singhiozzo ) ( dell’auto, dei suoi ammortizzatori ), quando uno ha la febbre e aspetta di essere portato in salvo. Pensa che la cosa, l’essere portati in salvo, implichi, naturalmente, l’essere soccorsi, ovvio, ma anche, in un certo senso, una liberatoria carenza di pretese ( sue e altrui): vede l’uomo che è suo padre dirigersi verso la cabina, nel piazzale reso blu dalla pioggia, un blu da far venire i brividi, la figura deambulante di suo padre perfettamente contro l’argento immobile del lago ( i tacchi consumati delle sue scarpe ), contro il lago, un’immobilità tombale, un enorme sigillo di lontanissimi sguardi, un confessore assassino, occultatore, sotto un cielo di rara ponderosità, liquidamente triste, come un viso struccato. Ha appena smesso di piovere. Pensa, anche, mentre smacchia alla meglio, facendo ciao o una carezza, il suo lato di parabrezza, appannato dal proprio eccezionale calore piretico, che c’è una certa analogia fra la qualità di quest’aria e il tempo che lo aspetta una volta che sarà portato in salvo, una specie di tregua bene accetta, una resa temporanea, un accantonamento della lotta perché ci sarà ancora lotta, ancora un refolo di illusione ( o no? ), l’estate che avrà ancora i suoi venti giorni di luminosa letizia, una vita intera per dannarsi e avvelenarsi premeditatamente, ma adesso, niente: pausa, resa, abbandonato oblio; dentro all’oblò che si va ricolmando di vapore, negli intervalli lasciati liberi dalle spazzole ( rimaste accese, come il motore ) che si trascinano su un vetro ormai completamente asciutto, gelidamente trasparente, dentro il frastagliato oblò che si richiude di lingue di vapore, vede suo padre contenuto dalla cabina telefonica che ha una conversazione impassibile, e si guarda le scarpe; qualcosa che ha a che fare con questi colori, saturati dal buio, che si illuminano nel momento in cui la luce li abbandona, che si illuminano di una luce che viene dal colore, dal colore come sarebbe senza la luce, col lago e la terra in procinto di avvolgerti nella corrente della loro densità cromatica, poco prima di sparire in un abisso comune, di affogarti mentre affoga: la famosa, estrema sanità prima di ogni morte. Stanno per ghermirti e ti abbandoni. Qualcosa che ha a che fare con tutto questo, qualcosa che ha a che fare con l’accettare di morire se il contratto prevede una rinascita. Qualcosa di spaventosamente, languidamente vile, nella sua febbre e nell’essere portato in salvo, mentre guarda il posacenere ripieno di cicche, e suo padre dentro la cabina telefonica che sta per scomparire nel tramonto ingrato di un impattante autunno in piena estate, sul lago, davanti al lago, nel tramonto che sa tanto di persecutoria promessa, una torturina proemiale, la spiaggia del lago imbrunita e due figure scontornate e pallide che ne attraversano il trionfo di colori esplosivamente morenti, e suo padre che lo porterà in salvo che adesso batte una smunta, esangue moneta da dieci cents sul vetro della cabina, e si guarda ancora la punta delle scarpe, mentre parla o più che altro sembra ascoltare, suo padre che è venuto a prenderlo e adesso lo porta con sé, perché gli ha detto che aveva un febbrone e un umore pessimo e qualcosa di davvero plumbeo e peso ad una certa altezza del corpo, e ci manca poco per la notte e per lui ( lui che aspetta suo padre in macchina ) che si sporge e si allunga, anche se gli fa male tutto, dai capelli alle unghie dei piedi, per lui che si allunga verso il clacson, ansima e da un paio di botte veloci, un paio di clacsonate rapide e battenti nel piazzale vuoto, davanti al lago, in una solitudine spettrale, in un silenzio sibilante, due clacsonate, un paio di onde di precisa origine che impatteranno contro l’altra sponda del lago, la rapida vibrazione di una foglia zuppa ( un verde che annerisce), il tracollo di un paio di pesanti, cristalline gocce da un ramo, la loro esplosione sull’asfalto, un modo di fargli alzare la testa, di chiedergli di essere celere, di ribadirgli quanto l’essere soccorsi implichi (ecco tutto), i giusti tempi, tempi esatti che non vanno evasi, non gesti, ma tempi, due clacsonate e punto, che gelo questa sera, un inverno ancora pronto a venire, solo per dirgli che vuole essere soccorso, puntualmente, che vuole essere portato in salvo ( poi, dopo aver suonato, si rigetta sul sedile. Si rigetta sul sedile e giura che attenderà con grande pazienza che lui abbia finito la sua telefonata ), che lo vuole, vuole essere portato in salvo ( da lui e da nessun altro) e non vede l’ora.    

Matteo Fulimeni

© Giovanni Marrozzini

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