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La signorina.

Forlì – E’ una di quelle case – un villino – che si ereditano a costo di non appartenerle, e dalle cui finestre si getta nei suoi ambienti austeri ( con qualche eccezione ) una luce incolore, diafana, come filtrata dalle chiome dei grandi alberi del giardino, albeggiante o crepuscolare. La luce piove nelle stanze e bagna i mobili e gli oggetti. Quasi tutti ornamentali, questi ratificano  la inamovibilità solenne, maestosa e patriarcale del mobilio ( nessuno capovolgerà il coperchio ingombro di candelabri della cassapanca – che, protetta da un vezzo, diventa essa stessa un vezzo, malgrado la mole – poco patriarcale, questo ), quando non sono le stesse dimensioni del mobilio a decretare il tradimento paradossale della propria funzione originaria ( il baule sul pianerottolo, grosso come un forziere, è a tutti gli effetti intrasferibile, eccetto che per la fiabesca fantasia di un trasloco, la cui realizzabilità, a sua volta, è ostacolata dalla stazza del baule ). Di modo che, stanza dopo stanza, cassettiere, specchiere, sedie, tavolini, vasi, scaffali, porcellane, biblioteche e minuta statuaria, nella loro presente e palpitante immobilità, classica e quasi sul punto di animarsi, dimostrano di obbedire ad un ordine e ad una prossemica scenici,  la cui inviolabilità maturata dal tempo, per usucapione ( ciò che fa apparire esecrabile sedersi su una sedia in apparenza fragilissima, che occupa uno spazio a puri fini estetici: una tutela che avvolge la sedia come un campo di forza ), produce la sgradevole sensazione ( la lego all’alienazione, alla nausea, al disagio e alla vergogna ) che la casa non cerchi abitanti, ma custodi: le candele, intonse nei portacandele, non hanno partecipato, con la loro luce, a nessuna piccola o grande cerimonia; gli oggetti d’uso disposti a formare una composizione, un surrogato dell’uso, una dimostrazione dell’uso di tipo museale; i mobili in legno, le porte stesse, che emanano odori di una dolcezza alcalina, come se reagissero agli istinti di una  lugubre, eterna primavera ( la loro lunga vita post mortem a dispetto di quella dei suoi abitanti ).  Oppure, di contro, certi ambienti pregni di uno strano, evocativo magnetismo, sembrano predisposti alla teatralità di eventi cruciali, come se di colpo escludessero la ripetitività e la noia del giorno-dopo-giorno e ti catapultassero nel contesto di una copiosa scena madre, romanzesca: penso al grande letto a due piazze, adatto com’è ad un operistico parto da feuilleton, o ad una dolorosa, cristica agonia da film svedese; o al vasto scrittoio, di quella eleganza pomposa, impraticabile – e intoccabile come una donna di celebrata bellezza – da evocare, più che le artigianali torture creative di uno scrittore ( vedi il modesto scrittoio di Dickens ), la stesura di un documento burocratico, notarile, o politico: qualcosa di sgargiante ufficialità, non di ufficioso. Ma è, naturalmente, quasi tutto teatro ( Ciò che è importante è dimostrare che il proprio privato possiede un potenziale decoro pubblico). E persino gli ambienti che dovrebbero parlare e riflettere la lingua di una vita quotidiana ( il seminterrato, ad esempio, con le sue fresche, umide stanze chiuse da cancelli che ricordano poste per i cavalli e la cucina piena di pentolame affumicato e bitorzoluto e la grande vasca di pietra per lavare i panni a mano che profuma di sapone e la cantinetta che conserva vecchie bottiglie di vino imbiancate di polvere per occasioni speciali che non arriveranno mai ), anche questi ambienti sembrano inscenare il linguaggio quotidiano, più che parlarlo ( sono narrativi e mimetici – il seminterrato non mi ha fatto pensare ad altro che ad una certa scena di Otto e mezzo – ASA NISI MASA – cioè ad una scena di vita filtrata da un ricordo filtrata da un linguaggio espressivo ). In realtà, i veri spazi vitali, nella casa, i luoghi del vero vissuto ( cioè quelli che coinvolgono un corpo che si muove e sfrutta uno spazio e lo sporca e lo pulisce più o meno monotonamente e a ciclo continuo) sembrano esiliati in modestissimi angoli a basso impatto; è come se le piccole e inevitabili dinamiche quotidiane non dovessero intralciare la grande autosufficienza della casa, la sua muta  e congelata stratigrafia autobiografica, il suo inscriversi per sempre nella definizione del reperto ( della memoria storica, un concetto che quando non è sentito diventa evanescente ), e quindi si limitassero alla discrezione di un paio di piccoli ambienti, proprio come il custode ha il suo stanzino, o il maggiordomo la sua camera privata ( senza avere un privato; e un’altra cosa che non ci si immagina è che possa ammalarsi,  come se invece di essere una persona, fosse un’entità ); allora ecco il disordinato cucinino al piano terra, pieno di quell’odore mielato, rassicurante e proverbiale dei luoghi in cui persone anziane hanno passato un sacco di giorni e di anni, dove hanno badato a se stesse attendendo visite senza aspettarsele; o l’asse da stiro e la cyclette sistemati nel breve corridoio prima delle scale ( in un luogo di transito ). Come se la propria vita non meritasse spazio. Come se fosse marginale, estemporanea. La casa allora è pleonastica. Al sottoscritto sembra rappresentare e incarnare benissimo tutta quella serie di soffocanti e tombali e rituali e repressive e retoriche e sommessamente psicotiche  ipocrisie ideologiche che per decenni hanno comandato di anteporre al bene dell’individuo le ragioni di una causa più grande, un’epoca il cui epilogo fu quella spassosa festicciola data da un birraio isterico e che si concluse con un soffice fuoco d’artificio da non so quanti megatoni. Vale a dire con l’emersione rabbiosa della psicosi sepolta. La proprietaria defunta, una professoressa di lettere  – di nome Olga –  che venne ad abitare qui coi genitori nel trentacinque, quand’era ragazzina, una persona capace di scandire il tempo della propria vita su microagende le cui note mensili recano piccoli, lapidari e sentenziosi compendi dei suoi sentimenti relativi agli ultimi trenta giorni ( “non c’è male”, “quante contrarietà”, “sono molto stanca ormai” ), con una cadenza meticolosa e ineccepibile che in quanto meticolosa e ineccepibile disinnesca lo sfogo emotivo inquadrandolo in un ordine disciplinato che è il contrario dell’emotività, e innesca, al contrario, quell’uroboro il cui risultato è la stasi e il mantenimento della propria vita nella sua rassicurante – anche quando terrificante – forma collaudata, allo stesso modo in cui la stazza del baule, grosso come un forziere, dissuade dall’usarlo per quel che è stato pensato – la proprietaria, che dicono si sia legata arcignamente – rigida e severa –  per tutta la sua vita adulta, ad una solitudine che autoalimentava, attraverso il carattere, il suo stesso isolamento, pare aver aderito e partecipato totalmente, dalle tracce lasciate, alla gestalt della grande casa dalla luce incolore. Negli ultimi tempi ha compilato delle accurate didascalie che ha poi apposto ad ogni oggetto della casa che riteneva interessante ( inaugurando a tutti gli effetti il museo di cui era stata custode)  e, prima di questo, le sue eterodossie – i moltissimi viaggi compiuti in giro per il mondo, ad esempio – sono state accuratamente dissimulate o diluite nei grandi ambienti: i depliant di viaggio giacciono nel vano di una credenza ordinati in mucchietti contenuti da quei nastrini pallidi che si usano per i pacchetti regalo ( un regalo che ci si è fatti va celato con senso di colpa ); i souvenir più esotici, che potrebbero essere numerosi, si camuffano come tracce di un tesoro ( riconosco con sicurezza solo una scatola di cerini svedesi e un vaso cinese )  nello stuolo dell’oggettistica di famiglia ( e dell’iconografia cristiana, quella ufficiale – e onnipresente ); i pochi libri contemporanei, che parlano dell’intrusione ostinata di qualche affetto tardivo, affogano nel mare dei classici vecchi di anni dalle costole sbiadite e screpolate e dai nomi stranieri italianizzati. L’espressione più eclatante e a prima vista paradossale di questa negazione di sé appare nella camera da letto, le cui pareti sono fasciate da quattro enormi specchi ( uno dei quali chiude lo spazio di una luminosa finestra ), qualcosa che fa pensare allo stesso tempo ad un’ansia quotidiana di ritrovarsi, di sapersi esistenti, e ad un lacerante, ossessivo narcisismo. Due cose che vanno chiaramente di pari passo. L’oblio di sé e la rinuncia sono l’altra faccia di un grande, smisurato solipsismo. D’altra parte non esiste un mistico o un santo che si sia fatto una famiglia.  

Matteo Fulimeni

© Giovanni Marrozzini

 

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© Giovanni Marrozzini

One Response to “La signorina.”

  1. rosalia scrive:

    mi piace molto questa serie fotografica, la trovo molto delicata e poetica…

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