COPERTINAMASSERIA_ALB4164

Auto costosissime.

Lecce – Quaderno pugliese

VIII

Parco di Rauccio, vicino Lecce. La notte è caduta a secchi, coadiuvata dai tuoni, ma i campi sembrano già asciutti. Il cielo ha una gravità infiacchita e pittoresca, ormai innocua. Negli spazi contenuti da lunghissimi orizzonti, di un’ancestrale vastità, nitidi e saturi di colori, si scoprono orli di basamenti, bianchi, e basse fondamenta che affiorano timidamente, incompiute. Ai margini dei tratturi, scomodi e bordati da muriccioli di pietra di consistenza sgranata, fanno la loro misteriosa comparsa auto costosissime e lucide, le sagome affusolate rese minacciose dal contrasto scenico, i proprietari inghiottiti dal fitto ordine degli uliveti ( a fare che? ): tra i filari la prospettiva si perde in una cortina vegetale un po’ sinistra e oscurantista, dalla quale affiorano le espressioni straziate e lugubri degli ulivi secolari, che sembrano urlare: il turgido gomitolo delle radici inzuppato in ferme pozze di piombo liquido. Prima, può capitare il corpo tozzo e monco di una pagghiara, dalle mura di spessore ipertrofico, e, su una radura chiara, spazzata dal vento, le enormi cupole gialle dei fichi, dal grandioso disegno architettonico: l’ombrello aperto su un cimitero di frutti putridi a ripetere una nuova,segreta dissipazione, un solipsismo naturale, triste e innocente. La masseria, abbandonata, ha l’aspetto di un fortilizio depredato: il cancello è divelto, ma sta su grottescamente, per un precario equilibrio, aggrappato con disperazione ai cardini dilaniati dalla ruggine. Ha una corte ampia (la masseria), dal pavimento di roccia sottile, cosparsa di erba scura e animato dalla contorta ramificazione di alberi stecchiti, neri. Negli ambienti del pian terreno, sobri sin quasi all’irriconoscibilità, si vedono file di mangiatoie e  il solco scavato dai muli nel loro roteare aggiogato attorno al frantoio, ma le tracce di questa vita antica si affievoliscono in una sorta di pulita e lenta levigatura, sbiaditura delle cose. Il primo piano, dall’intonaco color carne, pezzato di un giallo sabbioso, è parzialmente franato: le grosse pietre sono avvolte da una coltre di muschio, verde spinacio, e c’è l’odore di una putrefazione fresca, canzonatoria. Attorno al muraglione, tracce storiche di un rave party – il tipo di riconversione attualmente più in voga per questi luoghi – in grossi lattoni spremuti di carburante, su un letto di grigie braci, accanto a pattume di varia foggia: le grosse ruote di un trattore, l’anta mutilata di un frigorifero, una pluristratificazione di eternit.

IX

A Soleto, semideserta, se chiedete un’indicazione (dovevamo mangiare) gli abitanti prendono il vostro disagio molto sul serio, e per una sorta di inerzia, di canto in canto, continuano ad instradarvi e consigliarvi, con una gentilezza professionale, come se non aspettassero che l’opportunità di questa occupazione, senza che si capisca quale sia la soglia di soddisfazione che deve affiorare sulla vostra faccia perchè vi ritengano saldamente fuori pericolo; e non si capisce bene nemmeno chi tragga più giovamento, alla fine, da questo fugace rapporto dettato dal bisogno: il bisogno di mangiare, in particolare, li rende estremamente premurosi. A Sternatia, invece, scopriamo un velo opaco e viscoso nel cielo e una larga piazzetta addormentata in una luce bianca poco meridionale, tardo invernale, ferma come dopo una secca pioggerellina, senza un’anima. L’unico a muoversi nelle vie è un ubriaco dal piede sformato come da un assideramento che conclude i suoi ciondolanti cabotaggi aggredendo i baristi. Nel nostro bar c’è una barista – ragazza, ma formosa già come una madre, come molte ragazze di qui: temprata e dai piccoli occhi nocciola – lacrimosi – tiene testa all’ubriaco con un rimprovero a metà strada fra quello che si rivolge a un bambino e quello che si tributa a un cane. Quando il baccano cessa, e l’ubriaco si ritira come uno squalo preso a pugni, nel bar e un po’ in tutto il paese, si sente solo l’immarcescibile voce di Brooke di Beautiful ( che litiga con Stephanie ). Osservo il suo faccione biondo e inespressivo nel televisore, ruminando oscenamente il mio panino.

Matteo Fulimeni

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

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