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Dodici lupe.

Sillico (LU) – La serata era finita, e a notte fonda sulla piazzetta fredda e ammattonata delle terme c’erano solo una dozzina di modelle in abito da sposa, sedute alla rinfusa  su seggiole di legno prese dalla platea, a riposare dopo la sfilata. Alcune erano sedute a terra.  Certe avevano gli occhi chiusi ma non stavano dormendo. Gli occhi di molte erano fissi e sgranati come quelli delle bambole, erano gli occhi di chi s’appoggiava alle gambe di un’altra, vacui e trafitti. La passerella era stata smontata sommariamente, i tecnici se n’erano andati, i tavolini erano vuoti e in ferro battuto, arzigogolati e floreali, non c’era più il pianista, ma a terra restavano degli spartiti abbandonati e macchiati di mezze orme brune, ma non gualciti, insieme a della cenere. La luce veniva fiacca e melanconica dalle palle dei lampioni, si sentiva solo il borboglio incessante della sorgente, qualche vocalizzo malizioso e incomprensibile e qualche risatina delle modelle, una conversazione amena scandita stancamente e sospesa a metà, il richiamo preciso di una nottola dalla boscaglia nera tutt’intorno e i brandelli di un tango triste e sospetto da una stanza dei dormitori tutta gialla nella notte. Un poco lontano, davanti alla facciata tardonovecentesca di uno dei padiglioni, dopo la fontana di pietra spenta e dilavata, con sbaffi secchi di alghe e muffe verdi,  due facchini coi colletti sbottonati fumavano uno accanto all’altro in posa rilassata, e sul balcone appena sopra le loro teste, un uomo in pantofole paffute e vestaglia discinta, diritto ma aggrappato alla ringhiera, commentava distrattamente la voce di sua moglie che veniva dalla stanza infossata nella penombra dietro di lui: sua moglie parlava tramortita da un quasi dormiveglia, abbracciata al cuscino e sfatta, e l’uomo guardava le ragazze, lontane, sulla piazzetta, con una concupiscenza scientifica. I facchini ammiravano ottusamente le ragazze  ma non commentavano, avevano facce furbe e rozze. Dopo la giornata di lavoro fumavano tutti e due, uno accanto all’altro, guardando le ragazze, coi colletti sbottonati. Un custode giardiniere, molto vecchio, stava rastrellando le prime adunate di foglie secche approfittando della notte senza refoli, ferma come un grosso pendolo immobile, e guardava solo le foglie. Dentro, si intravedevano la reception vuota e le poltrone vuote. Dalla strada veniva il fiotto di un motore e il trepestio malfermo di un faticoso carico di valigie. Da dove l’uomo e i facchini stavano osservando, l’insieme delle ragazze pareva un’enorme bomboniera o una fiorita siepe di biancospino. Le modelle erano allungate sulle sedie, stese come se avessero la febbre, con le pance tese nei corpetti tempestati di paillettes, una leggera agonia di piacere nelle espressioni, l’aria di pensieri profondi negli sguardi lontani, e pareva che tutto lo scurissimo cielo notturno senza stelle pesasse sui loro corpi rigidamente distesi con una gravità che spesso faceva affiorare un sorriso tagliente sulle bocche di alcune, mentre prendevano un respiro. Con una mossa da bambine, allora, i bianchi incisivi andavano ad urtare impercettibilmente i labbri inferiori, rossi e rotondi, che iniziavano a screpolarsi per l’umidità. Affondavano tutte nei vestiti nuziali profusamente vaporosi, e dal gonfio, mosso viluppo del tulle venivano oziosamente a galla braccia esili e bianche e ondeggianti quando qualcuna si stiracchiava, assumendo una posa da tuffatrice eppoi rompendola, aprendo le braccia come un cavatappi. I veli erano scivolati a terra, grigie reticelle, e le acconciature tese sembravano non di capelli ma di pietra, i capelli stirati prima della crocchia  dipinti sullo scalpo, verniciati di tinte bionde o scure lucide nella luce d’acqua sporca delle palle dei lampioni, c’era anche una modella rossa e riccia, con una tinta ancora più rossa, quasi castana, lo sguardo affamato; l’un l’altra quasi tutte si torcevano i piedi avvolti in gambaletti opachi o calze scorciate fino a farli scricchiolare, si massaggiavano con tutte e due le mani, oziavano, certe gambe erano snudate tutte quante, le calze lì accanto come serpenti flosci e morti, e gli uomini le stavano guardando. Un frastuono di frasche rotte  nella boscaglia quando un lupo sbucò con un’esplosione dal nero sottobosco e rotolò improvvisamente sull’orlo della piazzetta come se ce l’avessero scagliato (stava scappando da qualcosa), battendo col dorso e guaendo, in quella maniera  che fa sembrare certi animali pietosamente vulnerabili, e si rimise confusamente in piedi. Ma l’equilibrio del quadro non fu turbato. Le ragazze si stupirono lentamente a vederlo, insonnolite e debolmente allegre. Lo esaminarono mentre già si avvicinava digrignante, sfilando verso di loro, elegantissimo, il fondo un po’ rasposo e nero della zampa ben aderente al terreno, una zampa alla volta, in linea retta; fissavano con molta intensità le labbra nere del lupo che si flettevano e formavano grinze suppuranti agli angoli della bocca che grondava saliva, e il lupo si avvicinava a passi marcati e flessuosi. Le modelle lo osservavano con l’ altezzosa ammirazione di un  mentore. L’uomo affacciato al balcone guardava tutto e disse a sua moglie – che non capì – che il lupo pareva impagliato, ora che una ragazza lo stringeva per il collo e ne afferrava, come maniglie, due morbidi lembi: il lupo si era inerpicato su di lei, semisdraiata su una sedia, e continuava a ringhiare ferocemente di fronte al viso di lei, mentre la ragazza sfoggiava un sorriso sanguinolento che pareva una crepa rossa su un campo innevato, rideva con le altre, tutte ridevano rumorosamente: abbandonate stancamente sulle sedie, trovavano la forza di ridere. I facchini avevano le schiene tirate percorse dall’elettricità e il colletto sbottonato e svolazzante, videro il lupo sgattaiolare nelle bianche spire del tulle, mortificato, sgusciare fra le gambe tese o arcuate alla ricerca di una canto accogliente dove appollaiarsi, lo videro alla fine acciambellarsi con frenesia canina e rimanere lì dov’era. Due ragazze poggiarono un piedino sul groppone ansimante del lupo come su uno scendiletto, scavando nel pelo folto e placandolo del tutto. Il custode giardiniere raccoglieva tutte le sue foglie, la moglie ormai dormiva, la musica non c’era più, non c’era più la luce.

Matteo Fulimeni

 

© Giovanni Marrozzini

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