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Sei ancora muta.

Pordenone – Per cui esistono momenti del nostro non-so-come-chiamarlo, appena dopo i momenti in cui arriviamo insensatamente ai ferri corti, e tu lasci implodere gli ultimi roventi residui della tua stella rabbiosa sotto una doccia bollente  il cui scroscio secco e attutito dietro la porta socchiusa del bagno che vomita vapore insiste a crivellarmi la mente di colpe che finisco per convincermi di avere sul serio, acqua che corre risentita fino al volgare scarico, mentre resto lì frastornato da quanto appena successo e detto, chino sulle ginocchia a fissare il pavimento, cercando di studiare il futuro dei prossimi cinque minuti, la mossa più onesta – senza velenose e masochiste astuzie – adatta a precedere il tuo riapparire, momenti che seguono questi momenti di intensa incertezza per le nostre singole vite e le loro imprevedibili combinazioni, in cui finalmente ogni cosa si quieta lentamente, ferma e interminabile come l’inattesa carezza di un genitore non più adirato, e noi possiamo sperare di trovarci, e io sento di reggere tra le mani l’agitatissima bottiglia in cui ti ostini a lasciar fermentare il tuo  amore radicale e teso alla perfezione e all’immacolatezza, avvelenandoti di sfiducia senza fine e disamore di te, trovo la giusta angolazione per penetrare senza andare in frantumi nell’atmosfera del tuo pianeta assetato dal quale traggo, che tu ci creda o no, acqua a sazietà. Non so come chiamarlo: vorrei parlarti, ogni volta, della speranza che sei capace di darmi, ma non lo faccio mai, so che ti sentiresti obbligata da una specie di responsabilità terribile, ma la mia è solo gratitudine, desiderio che tu sappia. Solo questo, che tu ci creda o no, credimi. In questi momenti io chiaramente  ti lascio una volta per tutte, ti mando, come si usa dire, definitivamente affanculo, eppoi stringo un nodo più forte attorno alla tua e alla mia vita, annodo il laccio emostatico del tuo dolore direttamente al mio cuore inzuppato, quando me ne vado senza clamori, con la mossa abitudinaria di uno che porta fuori il cane,  e attraverso il doppio vuoto d’aria del gelido, promiscuo ascensore condominiale, via verso la città, il centro inondato dalla luce fresca e calante della sera, i portici, le vetrine in lunga fila indiana, i frenetici tavoli dei caffè intiepiditi da stufe a gas, la luce nevosa dei lampioni, Piazza XX Settembre, dove finisce che mi siedo sul letto del tuo monolocale, un letto non proprio a due piazze sempre ben rifatto, e mi addentro in una lettura filosofica – c’è un libro di Bertrand Russell sul tuo, nostro comodino, non trovo, pensa un po’, meglio da fare – con la concentrazione voluttuosa e la lucidità sorprendente di uno che volendo dimenticare tutto ciò che da poco è accaduto, l’ha non soltanto già fatto, ma non si spiega nemmeno come si sia giunti a dover dimenticare di aver raggiunto un determinato punto di irragionevolezza: sguscio fra la folla, nel su e giù percussionistico di tacchi invernali e futili chiacchiere, a ripudiarti e tradirti con ogni volto che capto nella mia deriva: donna, vecchio, bambino, vigile urbano. Eccoti finalmente uscire dal bagno. Ogni inverno porti a temperatura la stanza fino a farne un nido tropicale dove poterti muovere nuda, stai sballando i capelli da un asciugamano rosa che stropicci con la forza che useresti impastando una palla di farina, nell’altra mano un pugno di leggerissima biancheria che getti al volo sul letto, a un metro appena dal punto in cui io siedo e leggo e resto in attesa di uno sguardo indiziario, tutto il tuo corpo è nudo, e un festone di capelli castani lo lasci piovere solo da un lato prima di abbandonare  la chioma intera, shakerandola, al suo umido, casuale destino, scossa ed elettrica come sarà poi da asciutta, eccetto i casi in cui le imponi una forma più torreggiante e architettonica con un fermacapelli a due denti che continuamente ti togli e appoggi dappertutto. Sei ancora muta, non mi hai ancora guardato, l’orgoglio dà i suoi ultimi strappi, ma ho fatto bene a rimanere – penso saggiando le vibrazioni emanate dalla tuo corpo, vibrazioni che escludono la rabbia dal proprio incerto spettro, mentre siedo sugli scalini della chiesa e guardo quattro adolescenti bere setosi frappé constatando quanto ancora si trovino dentro alla dimensione più innocua del gioco, e invece noi giochiamo un gioco sempre più impegnativo e ad alta posta, dritti come un fuso in una direzione sempre più sottile, verso la bocca spalancata del gatto. Sono qui, sul sagrato davanti a te, e il monolocale è in quello stadio di disordine minore prossimo a saturare la tua tolleranza, perchè al disordine reagisci con l’ansia tempestiva di un alluvionato. Eppure questo è strano: ripugni la pace sotto ogni aspetto, la pace, la tua felicità, il sentirti amata, guardi a tutto questo con un sospetto assoluto: non fai che dilaniare e squarciare la tua felicità e la tua pace per vedere cosa c’è dietro, come un bambino indispettito da uno specchio, ma il muro sei tu che tagli la tela.  Sono convinto, ora che muovi quattro passi di incurante, osceno defilé e ti sostieni per infilare le mutandine ma lasci i seni meravigliosi liberi di gocciare verso il basso, che questi siano i momenti in cui smettiamo di essere uomo e donna, ma due persone che condividono una stanza, un letto e un bagno – ancora hai il timoroso pudore di aprire l’acqua del rubinetto quando devi fare pipì – e puoi sempre sgravarti per un po’ dalla tua tenera corazza, dalle edulcorazioni, dalle idealizzazioni, dall’esasperante dovere a sedurre: farlo per un po’, prima di ricominciare con le ansie e i timori di inadeguatezza, di insufficienza, la vanità da punire continuamente, e quello sguardo che si agita sempre frenetico fra un interlocutore e l’altro per cogliere, come un bambino al primo banco con il suo annuire desideroso, l’approvazione e la stima di un estraneo autorevole, certificatamente migliore di te, il cui encomio anche presunto e senza implicazioni riesce spesso a renderti più felice di quanto possa fare io dicendoti che sono sicuro di quello che fai, e che mi fido di te, che sono fiero, e che, si, ti amo. Ma adesso che siedo sul tuo letto e su una panchina in piazza nella sera, e riesco a guardare te nuda e dritta e il ciclo placido di una elegante giostra vuota dalle luci non ancora completamente manifeste che gira su se stessa sferragliando e suonando, io sono esattamente dove vorresti, questo è il momento perfetto, la distribuzione perfetta della mia persona rispetto ai tuoi contrastati desideri di legame, secondo una precisa calibrazione voluta dalle circostanze io completo i due estremi del tuo odio e amore per me, del tuo avaro e generoso legarti a me, del tuo amore che troppo spesso degrada nella dipendenza, la mia ubiquità permette alle vertiginose oscillazioni del tuo pendolo umorale, al quale testardamente e lillipuzianamente mi aggrappo, di toccare gli equilibri istantanei di nostalgia e rifiuto per me, di sapido desiderio e ripugnanza per la mia ostinata devozione ai tuoi malumori e alle tue debolezze inaccettabili, alle tue ricercate, ipnotiche solitudini, che il mio amore viola senza sosta, imperdonabilmente. Mi guardi, alla fine. Non è lo sguardo di prima, né quell’altro sguardo che per una magia improvvisa si gonfia disinibito e sicuro e diretto e carico di cattiveria, rabbia e amore guerreggiante, ti succede e io ogni volta non ti resisto, devo toccare a fondo il nucleo di fuoco che disprezzi, sei più forte di me e della tua stessa rabbia, e si finisce a lottare lotte ed epiloghi e agonie di lotte fiottanti di piacere a cui segue un altro sguardo ancora, che si sgomitola verso l’alto davanti ai tuoi occhi incoronati dal turbamento dei tuoi capelli sul cuscino tiepido in un futuro di pochi passi avanti e molti passi indietro; è un altro sguardo ancora, questo, sollevato e riconoscente come di qualcuno che dopo il peggiore degli incubi abbia ritrovato a disperati tentoni l’interruttore della luce. E c’è una sfumatura di preghiera. A volte, mi piacerebbe spingere tutti sul pianerottolo e sbattere la porta, intona. Ho levato dal libro il mio sguardo che dice: non sarà un problema, finché la tua stanza avrà finestre aperte. Chissà cosa penserai domani, che opinione avrai delle risposte che do alle tue domande, amore mio.   

Matteo Fulimeni

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

One Response to “Sei ancora muta.”

  1. simone cerio scrive:

    io adoro Francesca Woodman!!
    un abbraccio a tutti e due

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