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Anelli ogni tre dita.

Perugia – L’area di sosta è una piazzola di asfalto smagliato e spaccato, con gli orli di erbaccia sporca arricchita di bancali e rimasugli appena sopra una strada periferica che la mattina è molto trafficata, ma la sera è triste, deserta e fiaccamente arancione. Dall’altra parte, la caserma dei carabinieri, che sovrasta la piazzola con la sua rigida massa architettonica, è a sua volta sovrastata da un grande albergo la cui imponente insegna, smagliante come un diadema nella notte, dichiara il suo nome dall’intero equipaggio presto considerato  pomposo e ridicolo. La caserma, sia di giorno che di notte, è tutt’altro che animata. I mezzi dei carabinieri restano immobili e vuoti dietro le cancellate spesse e nere.  I camper sono molto correttamente collocati ai margini dell’area, se si esclude un camper atipico insediato al centro, accanto a quella specie di saltuaria e poco individuabile strada che taglierebbe l’area in due, e che sospetto venga usata come scorciatoia dai più avveduti fra gli autoctoni; il camper atipico lo è perché non è un camper, ma un furgone bianco afflitto da spruzzate nero fumo indelebili e riconvertito a camper, con due persone, un uomo e una donna, che la nostra prima sera attuano un tetro e sinistro trasloco di lenzuola, materassi e biancheria da una utilitaria station wagon bordeaux al furgone, nel quale caricano loro stessi e, chiusisi dietro i portelloni, passano la notte. C’è, accanto all’area, un altro parcheggio che un esiguo gruppetto di operai sta lentamente pavimentando, e ancora dopo resta un bel pezzetto d’asfalto leggermente scosceso, con un filotto blu di bagni chimici sistemato nel punto  in cui l’asfalto si sgretola e si chiazza di erbaccia sconcia, più un cartello d’avviso giallo stinto per il mercato settimanale del martedì mattina, e del sabato. Questo significa che già alle nove di stamattina, caldo al punto da indurti ad emigrare su un altro pianeta, un compatto strato di auto crudelmente in doppia e tripla fila costringe tutti i camperisti a mettere radici meno provvisorie nell’area; camperisti che tra l’altro non si vedono mai scendere dai camper, men che meno lamentarsi, né passare anche solo di sfuggita davanti ad un oblò, dimostrando di essere vivi: autarchici e del tutto pigri, non si fanno vedere, ragion per cui, considerando che molti dei camper in sosta sono modelli angolosamente antiquati, l’intera area assume l’aspetto di un mesto deposito di rottami, incrementando e giustificando l’indifferenza e la noncuranza in tutti quelli bisognosi di posteggio. Il discorso è completamente diverso nel caso una macchina finisca intrappolata. A quel punto, il proprietario, colpito dall’improvviso lutto della prigionia, intraprende un drammatico e spaesato errare all’interno del perimetro dell’area, accompagnandosi con la declamazione di un rabbioso monologo sull’inciviltà, recitato a volume altissimo e pronto a tramutare l’intercettato consenso di qualcuno, desiderio inconfessabile, in una conversazione solidale che faccia scemare la rabbia e riaccenda la speranza nella fraternità umana. Dal e per il mercato, transitando davanti alla caserma, al suo cancello invalicabile e ai suoi mezzi vuoti e immoti, le signore si muovono afflitte, stanche in faccia e stracariche di sacchetti di plastica azzurrina pieni di frutta e di verdura, quelli bianchi o trasparenti pieni di vestiti, la camminata gravosa sotto ogni aspetto, scorata. E’ un mercato come tanti, ma singolare e quasi occulto, in questo punto della città, pienissimo di gente, 95 per cento di questa italiani, 95 per cento di questi donne di mezza età, probabilmente madri di famiglia e nonne. Pochissimi avventori sono stranieri, per la maggior parte coppie e famigliole africane, molto giovani. I camion della porchetta e dei salumi sono in mano agli italiani, accento e indisponente goliardia laziale, così come i banchetti con le minuscole piantine di fiori, i cui affari sembrano scarsi, mentre tutto o quasi il resto è gestito da stranieri, arabi soprattutto, e cinesi, non vedo nessun indiano o cingalese, la fruttivendola all’angolo sud del mercato, italiana, tiene però con sé come aiutante una splendida ragazza di corporatura e lineamenti esteuropei che è difficilissimo smettere di guardare. Questi nuovi mercanti, a parte un arabo esplosivamente grasso, tarchiato e taurino, che deve essere un talento naturale ed è l’unico che con le clienti rischia la storica insolenza impicciona e brusca del mercante, e sembra l’unico davvero umano, e raccoglie addirittura mormorii confidenziali da certe clienti abituali, non possiedono nessuna dote teatrale. Una mancanza di talento potenzialmente repellente, se non fosse temperata dalla stringente necessità di chi viene qui. I cinesi, che sembrano saperlo, stanno asserragliati dietro una profumata moltitudine di borsette contraffatte, e sono avidamente inespressivi. L’abbigliamento e la posa di due fruttivendoli di supposta origine marocchina è in netto contrasto con il mestiere di fruttivendolo. Sardonici, spavaldi, vestono lussuosamente, pessimamente atteggiati, i cappotti elegantissimi, le scarpe lucide che luccicano, le basette rifinite, gli anelli ogni tre dita, l’orologio di tre chili, lo sguardo untuoso, la puzza sotto il naso, i commenti incomprensibili alle spalle dei clienti. Un altro arabo, anche lui estremamente corpulento, mentre sovraintende al commercio delle sue sciarpette colorate, scandisce con allegro e inaudito candore questa réclame oscura e atroce: vogliamo-donne-bbone-che-comprano! Le-altre-donne-bbone-le-vediamo-per-la-strada! Dopo averla pronunciata esplode in una risata appagata, ma intorno a lui c’è il vuoto, e la scena fa un po’ pena. Poi si mette a telefonare, ad un volume di voce fuori controllo. Ma il suo isolamento ha altre ragioni; perché stamattina tutte le donne bbone che comprano stanno stipate sotto gli ombrelloni dalle cui falde cadono grucce che reggono cartelli fosforescenti con le scritte Stock 1 euro, Stock 3 euro, Capi di qualità tutti a 3 euro, Piumini invernali a 2 euro (!). Qui la scelta per il vestiario adatto alle cene in ristoranti extralusso tutti prenotati è cospicua. Mentre congetturo sugli imponderabili e avventurosi percorsi di questa merce, la ragazza delle scarpe a 1 euro, una bionda carina col naso tozzo, di nazionalità impenetrabile, si sta rivolgendo a due signore che rovistano fra scarpe da donna fatalmente spaiate come in una zuppa e puntualizza con orgoglio che il prezzo non si riferisce ad una scarpa, ma ad un paio di scarpe.  Le donne, madre e figlia, si osservano senza parlarsi. Ci sono  pianali dove maglioni di varia foggia e tessuto stanno confusamente ammucchiati e aggrovigliati, e la gente, sempre donne, ci scava dentro facendo le sue rapide valutazioni, un sacco di donne che si appaiano allineate e accalcate davanti ai pianali e frugano freneticamente fra i maglioni, ne sfilano uno da sotto il mucchio, lo esaminano con un’occhiata clinica e lo buttano da una parte, dove una vicina lo raccoglie ricominciando il ciclo. Un ragazzino in pantaloni militari dal volto annoiato e sospetto ogni tanto le motiva al grido spento di avanti donne, avanti ragazze – lusinga famosa e triste che ormai suona più che altro come un rumore di fondo, e nell’insieme la scena è un ingente e tragico ibrido di una caccia al tesoro, di un reparto controllo qualità, di una scena di un film sull’olocausto e di una agitata distribuzione di viveri a sfollati che sentono già piovere le bombe.

Matteo Fulimeni

 

© Giovanni Marrozzini

 

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© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

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