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La città dei matti.

Trieste – Ubriaca di spensieratezza, rifiutando pratiche e protocolli, la nostra sconfinata città accende tutte le sue luci ogni sera. Casette suburbane, palazzi rococò  e fumanti bassifondi un tappeto nero che si illumina di gemme tremule, sconfinatamente; la grande torre municipale, al centro quasi sicuro della città, fallica e distopica come si deve, fastoso parafulmine, si accende finestra per finestra dal foyer fino alla cima, dritta con la sua antenna a titillare nuvole adipose e arroganti, che non ci lasciano mai e non la smettono di far piovere ogni giorno una pioggerellina di cui si avverte più volte, giorno e notte, prima di riuscire a scorgerla, la scricchiolante propagazione, sulle guglie e sui tetti, liquidi e aghiformi passetti di tip tap che lucidano le strade nere e oleose dove i locali notturni, di regola due ogni portone, si accendono come juke box presi a calci, con bagliori di ametista,  ogni notte in simultanea e alla stessa ora, assieme agli schermi giganti affiliati ai palazzi ( che mostrano solo vedute della città ) con un boato o uno strillo o un assolo di chitarra, potenti a dir poco, nello stesso identico punto in cui, appena la sera prima, una canzone a tutto volume era stata recisa, per la chiusura, sgarbata come uno svenimento, sempre alla stessa ora, sempre come ogni sera da quel che ricordo, vale a dire da sempre. Gli avventori, i piromani, i buttafuori, i facchini, i moralisti e gli scrittori di dispacci, tutti a bere e a conoscersi, per procurarsi amicizie, amori e buon sesso occasionale. Nessuno sa più dire quanto sia grande la nostra città, e siccome nessuno lo sa più dire, noi sosteniamo che la città è infinita ( ma non usiamo questa parola, non usiamo, a dire il vero, più di tre parole). Le sirene e i motori si perdono in lontananze incalcolabili, che non ci interessa calcolare. E’ facile che la città sia così sconfinata da aver avviluppato l’intero pianeta e essersi infine ricongiunta con se stessa in un punto ormai indeterminabile che esclude, pertanto, confini, e l’esistenza di città diverse, più o meno sconfinate, alle quali inviare il messaggio che tuttavia scrivo, perché questo è il mio compito, essendo io uno scrittore di dispacci e dovendo scrivere dispacci sulle cose come stanno in modo tale da fugare ombre sulla nostra condotta e fare della nostra coscienza cittadina sempre una bella piazza appena spazzata e ripassata, che nella nostra sconfinatissima città è molto difficile da trovare, almeno all’interno del massimo raggio che mi sia capitato di esplorare nel corso della vita: conta che io scriva, non che invii o che rilegga, conta che scriva quello che siamo perché non venga trovato nemmeno da noi: infatti, ciò che sto scrivendo, appena avrò finito di scriverlo, lo chiuderò nel cassettino di questo scrittoio, a chiave, in questo scarno appartamento che ho occupato solamente per scrivere il dispaccio, lo abbandonerò lasciando che i piromani facciano irruzione e diano alle fiamme tutto quanto, dispaccio, scrittoio e appartamento – mentre scrivo queste righe, oltre la finestra molto trasparente, l’orizzonte cittadino è pieno di palazzi che divampano, sotto le nuvole. L’introduzione dei piromani – che appiccano ma poi li spengono, questi stessi incendi, interpretando caotiche telefonate d’emergenza dentro provvisorie cornette racchiuse da un mignolo e da un pollice – mi permette di spiegarvi un po’ le cose come vanno: fin dagli albori della nostra coscienza, quando il nostro più stressante impegno è di far rotolare del ghiaino fine all’interno di una sfera di plastica trasparente, rallegrandoci del rumore che riusciamo a produrre come di una magia, e delle strane ombrose voci distortamente puerili che ci piovono nella culla, veniamo allenati alla consapevolezza che nella vita potremo essere una cosa soltanto – piromani, buttafuori, facchini, moralisti, o scrittori di dispacci – e mai e poi mai potremo combinare una professione con un’altra, né passare, ad un certo punto, a fare un altro lavoro, che non chiamiamo così, per carità. Però, che caschi il mondo e non venga Natale, siamo tutti avventori, e questo non solo ci quieta, e fin dai primi scossi vagiti, ma rende entusiasmante un avvenire stabilito e solido come quello che ci si prospetta, dove saremo piromani, buttafuori, facchini, moralisti e scrittori di dispacci, e lo saremo per sempre, giorno dopo giorno, senza via d’uscita, ma con molte serate, un’infinità, in cui ballare una musica che comincia laddove s’era interrotta, perché, con correttezza, non un lembo di serata, né di canzone, né di propizia chiacchiera vada persa, del nostro divertimento. Odiamo le pratiche e i protocolli!, per i quali vale l’elusione che applichiamo al problema dei confini di questa nostra città uroborica: l’unico modo di non preoccuparsene più, è  rimandarne la compilazione, non pensarci, ballare sotto le luci, in apnea. Non vi sembrerà troppo singolare, allora, che il nostro vocabolario sia così esiguo, e attinga a tre soli vocaboli, continuamente permutati e idoneamente intonati, qualunque cosa ci venga in mente di dire, indicare o descrivere: dato che riusciamo ad interessarci solo di ciò che amiamo od odiamo, è la consuetudine che nei locali notturni, in pista o al bancone del bar, si origlino in continuazione bottoni attaccati in forme simili a questa, col tono di voce che tenta di inerpicarsi sulla  squassante placca di rumore assordante: “ Io pratica protocollo!” “Pratica io protocollo!” “Protocollo!!??” “Pratica, pratica!”, e anche dopo, durante i gemiti del sesso, pratici e protocollari, al caffè, dal giornalaio e all’altare – pratica io protocollo pratica pratica io protocollo e tutta la manfrina. Il paradosso che ci inchioda o ci inchioderebbe, però, è che ogni parola, gemito, saluto, sussulto e giuramento, producono, in realtà, fisicamente, dei protocolli. Ogni nostra azione di cittadini genera pratiche e protocolli. Essi aleggiano, come in una specie di impasto o amalgama pulviscolare, sempre più netto, asciutto e cartaceo, sulle nostre bocche che parlano e sulle nostre mani che si stringono, e al termine di ogni azione e di ogni contrattazione, pratiche e protocolli svolazzano e si vanno a posare dondolando sui marciapiedi delle strade e sui pavimenti dei locali notturni ( dove piovono spettacolosamente sulla trama danzante dei corpi ), con noi che ce ne siamo già andati, per non vedere pratiche e protocolli stesi per terra, chiari, tediosi, odiosi e da compilare. Tutte le mattine, al dilucolo, quando il cielo è ancora di un chiarore che cela illusoriamente le solite nuvole appollaiate sui cornicioni, i facchini, carponi e con le cravatte penzolanti, battono i marciapiedi e ispezionano i pavimenti, raccogliendo pratiche e protocolli, e quando sono le dieci tutta la città è ormai sgombra di tutto l’impertinente e angosciante spessore cartaceo delle pratiche e dei protocolli del giorno prima, finito nelle valigette impugnate dai facchini, che adesso occupano i marciapiedi a destra e a sinistra – a quest’ora la città sconfinata  è un vero formicaio – in due opposti e integri sensi di marcia, e vanno alla e vengono dalla torre municipale, più vecchia di giorno, dove, dopo aver augurato un pratica protocollo alla receptionist, ottengono il permesso di salire al quarto piano della torre – che avrà almeno cento piani, e che quindi conta almeno novantasei piani off limits – per percorrere ordinatamente un lunghissimo corridoio che termina in una parete dove c’è la bocca di un calapranzi, nel quale ficcano la loro razione di pratiche e protocolli, e nemmeno la guardano mentre sparisce sgualcendosi succhiata via dall’altitudine del palazzo che già si allentano le cravatte, escono a fare un brunch e un giro di telefonate, per stabilire in quale locale notturno sarebbe l’ideale continuare a ballare e  attaccare i migliori bottoni la prossima notte, domandando di qua e di là quale ragazza del giro abbia le pratiche più grosse.
Non faticherete a capire, e da scrittore di dispacci dovrò chiarirvi la cosa, che le pratiche e i protocolli non possono, di fatto, non essere compilati: in tal caso, il destino della città sarebbe segnato; secondo alcune autorevoli ipotesi, divulgate con sguardi scossi e voce scossa, un destino possibile sarebbe l’autocombustione, o una specie di collasso o implosione, simile all’epilogo di certe stelle piene di sé; e data la mole delle sue proporzioni, della città dico, e la sua facile coincidenza con l’intero pianeta, probabilità che, come detto, annettiamo nella certezza, abbiamo capito che non c’è scrupolo da farsi, che dal destino della nostra città dipende il destino dell’umanità intera, e che il metodo migliore per non compilare pratiche e protocolli e continuare a ritrovarci la sera ai locali notturni è quella di ricondurre ogni stranezza, stravaganza, eccentricità o intoppo del meccanismo, dentro al meccanismo: farne, anzi, molto creativamente, l’albero motore. Uno spettacolo al quale si assiste comunemente, passeggiando o ballando, al punto tale che notarlo diventa sempre più difficile, è quello di  gente trascinata via da due o più massicci buttafuori, all’improvviso, per via del fatto di aver usato una parola che non fosse io, pratica, protocollo. Per via del fatto di aver sussurrato un sussurro non conforme nell’orecchio di una ragazza e averle fatto rabbrividire i peluzzi. Per via del fatto di aver asserito che il cielo sopra la città pare fatto di latte. Non credo di dovervi spiegare dove i buttafuori trasportino questi soggetti, novantasei piani (almeno) sono un’infinità di spazio, per una tale, esigua minoranza. La cosa non offre che benefici: gergo e comportamento difformi significano, liberi e alla rinfusa, nient’altro che un continuo vocio che pungola e ripete quanto siamo impelagati fra le pratiche e i protocolli, ma, messi così, ordinati secondo il volere cittadino, non possono che sgravarci dall’impellenza di compilare, uno ad uno ad uno, pratiche, protocolli e di nuovo pratiche ( i nostri peccati, i nostri sogni violenti, le nostre meschinità che loro vergano e certificano e protocollano con più fantasia e padronanza verbale del nostro misero e monotono io pratica protocollo ). Tutto serve ad uno scopo, vale a dire il nostro. Ma pur sempre qualcuno, a questa storia, si ribella. Non è da poco che subiamo dei sabotaggi: facchini, sospettiamo. Mettono qualcosa in quel calapranzi alla fine del corridoio del quarto piano, qualcosa che non sono né pratiche né protocolli, sicché qualcuno in un capannello che beve fuori da un locale notturno giura di aver visto, e più di una volta, una finestra spalancarsi ai piani alti della torre illuminata nella notte, e una specie di fiore gigante sbocciare subito dopo nel cielo notturno illuminato. Un paracadute o una vela che perdeva flebilmente quota e si allontanava affievolendosi e sparendo, come il suono di una sirena o di un motore, verso distanze incalcolabili e sempre meno interessanti. Chi lo ha fatto notare, gridando alla fuga, ha ricevuto solo spallucce e occhiate contrariate. Di questo non ci preoccupiamo. Il disinteresse per l’integrità del sistema, serve all’integrità del sistema. Agli altri, il giorno dopo, il moralista avrebbe scritto che anche i ribelli non sono che collusi, e che o si fa la rivoluzione, o tanto vale incontrarsi come ogni sera al pratica, davanti a un bel protocollo.

Matteo Fulimeni

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Peppe Dell’Acqua, psichiatra. Ha iniziato a lavorare con Franco Basaglia fin dai primi giorni triestini, partecipando all’esperienza di trasformazione e chiusura dell’Ospedale Psichiatrico. Tuttora vive a Trieste ed è il Direttore del Dipartimento di Salute Mentale.

© Giovanni Marrozzini

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