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Gli angoli della bocca.

Milano – Poi abbiamo visto la ragazza apparire e accomodarsi nell’angolo della caffetteria che era allestito a mò di salottino, con un divanetto la cui esistenza era garantita da una leggera rientranza della parete, un tavolo basso e di vetro che le due comode cameriere mulatte non avevano ancora sgombrato dai residui dell’ultima tornata di avventori, e due puffi rigidi e cilindrici rivestiti di pelle spessa, ruvida e dura color panna acida; la ragazza occupava l’angolo destro del divanetto aderendo con la schiena leggermente inarcata allo spigolo smussato della rientranza, per via di una postura che pagava il dazio di una goffaggine  quasi senile al desiderio di apparire matura e compassata – in altre parole, era come se le riuscisse difficile non sforare nello slancio verso i suoi sospirati propositi anagrafici: gli abiti erano beige, eleganti e costosi e singolarmente intonati alla gamma di colori dell’angolo prescelto, e del cappotto si era liberata  in fretta. Era bellissima. La morsa del calore di termosifoni tenuti alti in maniera folle assillava tanto lei, presumevo, quanto noi, presumevo, e tutti gli altri nella caffetteria affollatissima e ricca di quel fluttuante fracasso conversazionale all’origine delle cui singole componenti era ormai impossibile risalire: qualcosa di analogo al noto principio per cui non esiste percorso a ritroso per il fumo di una sigaretta disperso in un ambiente, una dissipazione di cui l’armonia di un coro, ancorché di miliardi di miliardi di miliardi di voci, non si sarebbe mai potuta macchiare, consolata dallo spartito come da una mappa, ma che era possibile qui,  senza nessuno scrupolo estetico, nella caffetteria al terzo piano della libreria Mondadori in piazza Duomo a Milano, dove un caffè costa quanto un panino e un panino quanto uno stock di panini e uno stock di panini quanto la Mondadori; il principio di entropia inconsapevolmente ribadito da almeno una ventina di  bocche più o meno colte  messe solertemente all’opera maciullante: la tornitura di certe parole o le paludose lallazioni, risate cavalline o guaiti leggeri, i sospiri polisemici – i taurini sbuffi nasali, e ognuna di queste cose inestricabilmente adulterata dal masticare e dall’ingoiare, come nell’appiccicoso rimescolio di due fluidi molto densi. Che il fatto – l’ossessionante imprevedibilità, intracciabilità, e il dirompente vorticoso disordine chiaramente fuori di testa della integrale architettura di ogni cosa – che il fatto mettesse per l’ennesima volta in chiaro le cose in questa sua forma mediocre, grottesca e volgare, si può dire che più che rattristarmi mi offendeva: dato che ognuno è il perfetto artefice e portavoce del caos di cui fa parte, il proposito di raccontare ordinatamente lo stesso caos portato addosso da me e da ognuno dei presenti era, ancora e sempre di più, un’operazione senza scopo né significato. La ragazza era lì seduta. La mia guida era davanti a me, con lo sguardo fedele al menù. I the e le merende apparivano  già curiosamente consumati – era come se fossimo arrivati qui postumi ad ognuna di quelle occasioni – e giacevano in cartocci amorfi e stropicciati sui tavolini vissuti, e, ai tavolini, gli avventori tutti insondabilmente curvi e con le teste rincalacagnate nel guscio delle spalle ora che indugiavano nel punto morto di una conversazione che languiva da troppo, mentre, ai due piani inferiori della libreria, quello stesso calore velenoso ottundeva e instupidiva chiunque provasse una lettura lucida sotto le luci bianche di ciò che pescava dagli scaffali, e ogni lettore e piluccatore si spostava fra le pareti rilegate con la stessa compiaciuta ottusità da cui ci si lascia vittimisticamente sopraffare fra i vapori  di una sauna. Era nauseante: la luce chiara fino a rendere opaco lo sguardo, la scorante canzone natalizia, un’infinità di libri, un senso di falsa fame come diversivo al tedio delle alternative, la gente dai gusti grossolani pronta a farsi consigliare dai commessi, la gente dai gusti raffinati che non accetta consiglio né che si accetti consiglio, il cartellino con il nome che pencolava da una molletta infilata nel taschino della maglietta dei commessi (erano a maniche corte), il non capire sino a che punto fosse condiviso l’equivoco piacere di stare qui, la difficoltà ad orientarsi in tutto, il vicolo nel quale viaggiamo, con pericolosa precisione, alla febbrile velocità di una vita difficile e brevissima.  Io e la mia guida avevamo parlato di certi ostacoli burocratici della mia guida mentre a falcate  veloci e scipite ci recavamo qui, facendo decollare i piccioni attraverso la piazza brulicante, e ora non parlavamo di niente. La ragazza si è tolta il cappotto in un attimo che né io né la mia guida abbiamo avuto l’occhio di cogliere: il cappotto, bellissimo, raffinatissimo, con grandi, rotondi e appaganti bottoni di madreperla, le è semplicemente sparito di dosso in una porzione discreta di tempo da paradosso presocratico. L’umile uscita di scena del soprabito faceva luce su un vestito che esibiva fiduciosamente due lunghissime clavicole le cui campate appena arcuate si tendevano di slancio sino alle spalle rotonde dalla molle buca della gola, clavicole  simili a sontuose ali fossili di pterodattilo. La maglia lasciava scoperta una mezzaluna di pelle sino al seno appena sceso: il disegno dunoso delle costole che provavano ad affiorare sulla pelle chiara si mostrava con conscia delicatezza. Era una traballante pista di decollo. Respirava con un affanno protratto, la ragazza, come se stentasse a recuperare da qualche fatica recente, ma c’era dell’altro ( e questo altro invocava da dentro un affanno diverso, una specie di brama euforica che la sconvolgeva ): teneva la bocca socchiusa, e si capiva, dal microscopico fremito della sottile e buia fessura aperta tra le labbra, che espirava più di quanto non riuscisse ad inspirare; la ragazza iperventilava, sorridendo svagatamente. Il tepore di quel fiato era così palpabile che lo sentivo letteralmente appannare qualche punto particolarmente gradito al mio corpo; le labbra, poi, erano non carnose, ma protese in avanti, polpose e rosse, in quella specie di debole accartocciamento prima di ogni bacio, come se due dita rudi e autorizzate le stessero pinzando gli angoli della bocca. Ogni tanto, nel corso della stesura di un lungo sms, quella stessa bocca abbozzava un labiale dai cui frammenti io cercavo di risalire archeologicamente  sino al messaggio completo. Non mi accontentavo. Dal messaggio completo volevo poi ricavare l’intero alfabeto della ragazza, ricostruirne l’ampiezza e le ricorrenze del vocabolario; e dopo sarebbe stato fondamentale cogliere il ritmo della sintassi, perché dal ritmo della sintassi io sapevo benissimo di poter arrivare a computare i battiti cardiaci per minuto, auscultare il suono turbinoso che fa il sangue mentre si spinge a spasmi sino ai recessi meno irrorati delle nostre anatomie. Le palpebre le si rovesciavano rapide come botole quando alzava lo sguardo e lo faceva correre panoramicamente sulla saletta – era lo sguardo carico di introversione di chi cerca di stanare da intimi nascondigli una parola remissiva. Vedevo  il nero della pupilla tracimare sui pistilli color birra di un fosco iride allo stesso modo in cui, dopo un decisivo attimo preparatorio, il sangue sgorga dal punto in cui ci siamo punti e si raccoglie in un piccolo globo rosso dal guscio lucido e malleabile, simile a vetro insufflato ancora rovente di fornace. Il naso una avveduta pennellata impressionista, e stava con occhi e bocca all’interno di un viso rosa pallidissimo disegnato con la squisita maestria con la quale il vento traccia la sua alterna, liscia topologia su un tappeto di neve fresca nel corso di una tormenta: la guancia, allora, era un valle che dal mento risaliva alla gota senza la minima interferenza o frattura, a parte un neo, cupo,rotondo e insulare, sospeso al centro della guancia, nova scura che sembrava il bacino di ogni imperfezione percepita di quel viso, di quel corpo, di quella stanza, di quel palazzo, di quella piazza, di quella città, di quel cielo cinereo che la mia guida, in quel preciso momento, proprio di fronte a me, osservava cupamente dalla finestra – assieme al continentale albero di natale che molti operai andavano allestendo, così grosso che là fuori neanche si notava, e che temevo sarebbe presto stato impolverato da quel cielo. Capivo che la capacità evocativa di una donna e del suo corpo dipende in gran parte dal fatto di promettere qualcosa che va al di là delle capacità della donna di mantenere la promessa stessa – la bocca socchiusa, la grande mezzaluna di pelle listata dai timidi turgori delle costole distesa dalla gola fino al seno. Mordere, mangiare qualcosa che non può essere effettivamente mangiato. Il potere misterioso che ha il sesso di sublimarsi mentre si compie concretamente. La mia guida ha osservato per un po’ la solenne respirazione della ragazza concludendo che forse era ammalata o affranta o psicopatica. Ognuno di noi trova particolarmente sgradevole avere a che fare direttamente con la vera disillusione e la vera malinconia degli altri, ho pensato ( dichiarati ad alta voce, infatti, malinconia e disillusione risultano posticci e inverosimili, e nessuno sa davvero sostenere, e persino ammettere, il dolore degli altri ), ma le illusioni degli altri, più dalle disillusioni, restano imperdonabili. Dovevo in aggiunta ricordarmi di una cosa che sbadatamente andavo trascurando: la mia guida, era anche lei una ragazza.

Matteo Fulimeni

2 Responses to “Gli angoli della bocca.”

  1. s. scrive:

    fantastico…sembrava di essere li…

  2. Massimo scrive:

    Essere disponibili ad osservare permette di andare ben al di la di quanto presumiamo di poter vedere.
    Grazie ragazzi, Massimo.

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