COPERTINACIOCIARIA_ALB1901

Con l’amore è diverso.

Alatri (FR) – Dopo gli occhi rossi dei dissuasori retrattili che a precisi intervalli azzardano la testa piatta fra i sanpietrini, sfilando davanti a ragazzi in pose da piantoni rammolliti che fumano con l’espressione di chi da un momento all’altro si aspetta di confrontarsi con una minaccia, piantati a gambe larghe sugli scalini scheggiati d’ingresso di un bar ancora aperto per virtù di carità e forza d’inerzia, con le due giovani grassottelle bariste in divisa vagamente dandy che, caritatevolmente, riescono a trattenersi dal gettare continuamente lo sguardo sull’orologio a muro di un bianco e nero minimalista soltanto impegnandosi a spolverare prolissamente un gramo bancone la cui disertata vetrina parzialmente appannata esibisce una sporadica offerta di panini strizzati in asettiche confezioni di industriale sottovuoto, dopo il viale tutto quanto di sanpietrini percorrendo il quale certi automobilisti si lasciano annunciare nella notte quasi completamente quieta dal frastuono babelico del proprio represso autoradio, si arriva nel centro di Alatri, in piazza, dove i globi di luce calda ed acquosa che si allargano a partire da lampioni retrò vanno a lambire le facciate di due belle e bianche chiese concorrenzialmente accostate, una delle quali monopolizzata da un rosone esagerato, il palazzo del municipio, i piccoli lati di una fontana poligonale dove l’acqua  gloglotta mentre da un liscio becco di marmo crolla nella vasca di raccolta, fino a dare vita ai sottili, dolciastri scintillii sulla vernice di numerose auto in sosta silenziose e a muso basso. E qualcosa, nei connotati di questa vecchia, solenne e lenta urbanistica,  per quanto adulterata, piena di compromettenti concessioni alla modernità, sembra adattarsi al ritmo e alla ciclicità del giorno e delle stagioni di quel tempo in cui il tempo poteva permettersi di essere misurato con una meridiana ( immancabile, tracciata sull’intonaco di un palazzo storico ).  Ecco perché, forse, i giovani le trovano repellenti. I palazzi, la piazza, la fontana, le scalinate screziate di muschio che s’imboscano in vicoli anfrattuosi sormontati da archi a tutto sesto, sembrano tutti addormentati, o perlomeno assopiti, e non passa molto che questo senso di quiete, di riposo, con la sua tirannica nitidezza e intimazione, si esaspera fino a che il centro città, illuminato come una cartolina, inizia ad apparire museificato, imbalsamato, immutabile, senza vita. Naturalmente è un inganno, e affinché passeggiando solitari fra gli alti muri di mattoni che stringono i vicoli deserti imbevuti di penombra si possa arrivare a immaginare la vita che, con grande riservatezza, si svolge ancora pienamente dietro ai muri, è necessario indovinare questa vita da una serie di indizi che, mano a mano, parsimoniosamente, fatalmente, non possono che trapelare, trasudare dai e fra i muri stessi: il borbottio subacqueo di un televisore, il sibilo caldo e l’odore suadente e solforoso di una perdita di gas, la traccia di una chiacchiera senza recapito, lo squittio sgradito di una colonia di pipistrelli che grondano nel grembo scosso di una palma, o la sezione di una gamba ( o la coda di un cane ) che sguscia scantonando all’estremo opposto di un vicolo, come un sicario che si allontani con muta decisione dopo aver portato a termine la cospirazione nella nostra più totale impotenza. Ma non passiamo la notte qui, ad Alatri. La locanda, con il suo cortile di ghiaia, il suo guardingo albero dell’impiccato, il livellato parcheggio di cemento, la pista da ballo, la tensostruttura saldamente cucita, è a qualche chilometro dal paese, dopo un tragitto notturno che percorriamo con l’inaccorto orientamento di chi sonnacchiosamente si affida alle cure dell’ospite. La terra, i monti Ernici che solo alla luce del mattino brutalmente terso si sarebbero mostrati, è di un nero intenso e nettamente delineato; il cielo, contrariamente, assorbe il bagliore di brace che si libra dalle valli pedemontane, e su quei contorni di nero si adagia e si definisce. Orione domina come sempre il cielo stellato, ed è come un compagno vigile, ogni volta. Colline si accalcano affondando in una fuga scomposta che il nero della notte rende del tutto piatta. Sotto il profilo psicologico, il risveglio è disastroso. Si riconosce il dolore perché il sonno non lo lenisce, si è svegli e già perfettamente consapevoli di una presenza sgradita, che ha vegliato su di noi, e che è ancora lì, pesante, testarda. Con l’amore è diverso. Alla tranquillità del risveglio, segue un piacevole stordimento che culmina nella  sorpresa di essere innamorati, come un di più che arricchisce la speranza nel giorno che comincia e che dormendo abbiamo provato il gusto, ci siamo permessi il lusso di dimenticare. Il dolore è sostanziale, accanito, è una cosa persistente e monotona, che gongola e ghigna alle tue spalle, e il peso compete soltanto te. Il problema è che la notte le cose gelano, il cinese rigetto del rubinetto è diventato un grappolo di pustole cristalline, il terreno è impietrito insospettabilmente, dato che il clima è così secco che nemmeno la brina ha la possibilità di fare la sua temporanea comparsata risalendo a diaboliche lingue azzurrine dal fondo delle valle, impegnandosi a donare al gelo una spettacolare forma esteriore. Il tubo dell’acqua, indispensabile, è gelato, e gran parte della mattina è dedicata alle cure necessarie per riscattarlo dal suo assideramento, dalla sua mortale rigidità ( niente è più inutile di un tubo in cui non può scorrere acqua ). Un lungo bagno di sole, al quale il tubo si sottopone inerme e privo di conoscenza, iniziando appena a cedere e a scricchiolare in certi punti, si rivela inefficace; poi l’ipotesi di ricovero all’interno del gavone inondato dal calore dei riscaldamenti; poi l’apparizione del proprietario della locanda che offre a tutti del liquore; e che poi prova di persona a rianimare il tubo pompandoci ancora dell’acqua; eppoi ci offre di visitare uno dei suoi terreni, che si trova più in alto. Il tubo subisce delle contrazioni che fanno pietà a vedersi, e,dopo un po’, vomita, e a lungo, una favolosa manciata di confetti ghiacciati che vanno a depositarsi in un mucchietto raggiante sull’erba intirizzita, aristocratici ghiaccioli che non sembrano avere l’intenzione di sciogliersi presto. Il terreno è più in alto, allora, debolmente increspato, con un piccolo uliveto, e alla fine di una stradicciola piuttosto scontrosa, sopraelevata, che passa fra rami robusti e minacciosamente protesi, sotto grossi monti che sembrano pagnotte, le cui cime sfuggono appena all’assalto dei boschi grigio colombaccio e appaiono sgombri di neve, a parte brevi e irregolari strisce che miseramente si conservano solo in certe crepe sottili, umiliante contentino. Si scorge lo scosceso grigiore di un paese più in alto, Vico del Lazio. Da una vacillante stalla di lamiere il nostro uomo porta alla luce due cavalle, una bruna e una nera, con le code lisce e lucide che nel momento in cui cacano o si annusano si erigono verso il cielo, religiosamente, il torace gonfio e ricoperto di peluria volpina, e una timidezza meravigliata mentre si ritrovano a trottare, frenate e contratte, lungo il perimetro del campo tutto cosparso di arcipelaghi di rotondi e lucidi ovetti neri di cacca di cavalla, e non passa molto che, mentre mi avvicino prudente alla nera, ora ferma immobile in un punto, chissà perché, con la tipica espressione indecifrabile del cavallo, la bruna ha uno scatto di impazienza, e parte in un grandioso, infantile, imprevedibile galoppo nel corso del quale assume più volte la posa che hanno i cavalli dipinti sulle pance delle anfore greche, e percuote il terreno con tale forza che il rintrono si diffonde impetuosamente per tutta la zona, e soverchia i pochi altri rumori, l’ansimo estenuante di un aereo invisibile, l’ostinato richiamo di un arrotino che senza scrupoli risale, tenta di risalire continuamente dal fondo della valle.            

Matteo Fulimeni

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

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