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Le notti più belle del mondo.

Civitavecchia (RM) – La virtù più grande che Roma possiede è di conoscere perfettamente i suoi peggiori vizi. E’ una città che si conosce, e conoscersi è notoriamente la prima virtù, dalla quale discendono o dovrebbero, tutte le altre. Molto spesso, però, da questo conoscersi Roma non ricava niente, fatto che, d’altra parte e a sua volta, andrebbe annoverato fra i molti vizi che Roma ha la virtù di riconoscersi. Fanatico, morto di fame, sfollato, miserabile. Apostrofi e appellativi di coniazione propria che servono a mettere sull’avviso: avrete a che fare con predatori astuti: la gente che incontrerete si fingerà morta un attimo prima di sbranarvi. Proverà inoltre il gusto kafkiano di esagerare, di ingrandire un dolore – rivelazioni che Kafka faceva a Milena sorprendendosi che Milena non sottostesse quanto lui alle stesse lusinghe mistificatorie. E’ facile che un romano si sbalordisca di non essere al centro del mondo. Così, una modesta nevicata, e di veloce remissione, di quelle che altre zone temperate d’Italia vivono serenamente non meno di due tre volte l’anno, è bastata ai Romani come pretesto per ostentare, naturalmente in mondovisione, tutta la loro lamentosa indolenza ( che sotto sotto considerano un punto d’onore, perché la ritengono una risorsa per godersi la vita), insieme  al parossismo tragico dei loro impareggiabili sacrifici – tipo nettare un centimetro di neve fusa dallo scivolo del garage – e al piagnucolio puerile di chi usa un piccolo malessere per ottenere attenzioni – con il conforme corollario che mentre i Romani frignavano, cittadine come Urbino o Cesena soffocavano sotto due, tre metri di neve. Metropoli provinciale, Roma è come il vecchio che ambisce al primato degli acciacchi quando si reca al circolo della briscola. Roma è Alberto Sordi: meschina, vigliacca e piccolo borghese. I cartelli luminosi sopra al grande raccordo anulare annunciano altri due giorni di sciagure veterotestamentarie, prescrivendo le celebri catene da neve, ora il pittoresco accessorio reclamizzato pro tempore dai grotteschi mercatari di Porta Portese, ma attualmente, con i suoi undici gradi centigradi, questa è la zona d’Italia più calda ed asciutta. Tuttavia, in quest’isola di tepore insospettabile nel quale capitiamo, quasi una tarlatura nel tessuto di un inverno resosi improvvisamente troppo rude, la bellezza sensuale che scagiona da sempre Roma e induce a sorvolare sui suoi enormi difetti riesce a corrompermi di nuovo. Corrotta sotto tutti gli aspetti, Roma corrompe e seduce, e si può amare soltanto di un amore amorale, perché altrimenti questo amore incontrerebbe troppi ostacoli, o la si dovrebbe odiare, Roma, lasciarla bruciare. Accade subito dopo Fiumicino, dove il cielo lavanda è tutto una frenesia di rotte, una continua staffetta fra atterraggi e decolli, e grossi boeing scivolano seraficamente sopra le nostre teste, trascinandosi rapidi boati più simili a fischi. Qui le chiome dei pini, disposte in lunghe linee, imberrettano l’agonia serena del sole, e un odore di resina e di altro, forse un’essenza segreta, unica, allaga la campagna che è ancora imbevuta di pioggia, accecante di colore: è lo stesso profumo che inebria, forte come una droga, nelle belle sere di Marzo sul Gianicolo, o sui prati spelacchiati di villa Pamphili, quando il cielo stesso sembra profumare, e un odore indimenticabile, un vero enigma, cala lentamente dal cielo vuoto e arido, come polline, depositandosi sulla città, sulle strade litigiose, scorrendo lungo l’edera che a festoni gronda dai cornicioni di Trastevere, fin sopra le tettoie dei caffè, nella lenta dolcezza di certi vicoletti. C’è sempre un tramonto quando questo succede, e le notti si annunciano miti e pacifiche, le più belle notti del mondo, a Roma, come un letto dalle lenzuola pulite, fresche e di un bianco che arde dopo molti sonni frugali e inquieti. La primavera, unica stagione che le appartiene, dichiara la sua egemonia su questa città stupenda e misera, che tira avanti e questo le basta.

E’ già notte, invece, quando arriviamo a Civitavecchia, e sulle acque grigie azzurre del mare, piatte come ghiaccio, cateratte di luce piovono a balze sui ponti di due enormi crociere, oscene regge temporanee per parvenu. La città, che comincia lì accanto, ne fiuta il lusso col distacco un po’ nauseato di un servo che conosce le miserie corporali del sovrano, e invece, chiusi nella penombra crepuscolare, e appena segnalati da deboli baluginii di servizio, i traghetti, lettighieri del mare, se ne stanno silenziosamente parcheggiati negli anditi squadrati del porto dove l’acqua del mare mostra la calma innaturale di una bestia ammaestrata, e si alletta in bacini e corridoi ordinati dalla successione delle ampie banchine, occupate soltanto da esili gazebo biancheggianti, depositi attoniti, piccoli uffici doganali pieni di una luce glaciale nella quale annega la noia di giovani funzionari dall’espressione insonne. La luce dei grandi fari a disco atterrando si indebolisce, soffondendosi e donando a tutto il porto quel particolare tono mesto e struggente che hanno i luoghi ( non tutti ) dove la vita si sofferma per poco, molto provvisoriamente, svelandosi per quel che è veramente. I ragazzi con le pettorine hanno un che di angelico, in questa atmosfera, che spinge a fidarsi di loro, a chiedere informazioni che non servono davvero, solo per chiacchierare, per il solo gusto di affidarsi. La Tirrenia Nuraghes deve partire alle ventidue e trenta. Pochi sono in attesa di imbarcarsi; pochi i passeggeri, che solo all’ultimo imboccano il corridoietto d’imbarco con la tipica nevrotica disattenzione da routine, trainando trolley abulici e grassi, sorretti da penose ruote ipotrofiche. Dalla stiva, nella quale vengono faticosamente convogliati gli autotreni, interi o mutilati, provengono lamenti baritonali, barriti, gemiti degenerati, clangori assillanti. E’ un ambiente meccanico e repellente, sotto il freddo patronato delle macchine,da brividi, ostile, che sembra bagnato senza esserlo, con le vernici che paiono sudare, illuminato come una cella frigorifera, piena di bulloni giganteschi e catenacci dagli anelli grossi come la mia testa. L’addetto all’imbarco, capelli bianchi e viso da oste, è di allegria invadente e propiziatoria, oltre che rassicurante ( sta lì apposta ), e subito dopo una scala mobile ripida e stretta sale tristemente, con la tristezza di uno sherpa logorato, sino al primo piano e alla reception che, più che nuda, è scarnificata. Questo modello di nave è identico a quello dei traghetti che da Ancona salpano per la Grecia, diretti a Igoumenitsa o a Patrasso. Ma sulla Nuraghes Tirrenia, probabilmente una veterana, l’usura o chi per lei ha provveduto a liquidare ogni ipocrita tentativo di avvicinare l’esperienza del traghetto a quello della crociera. Gli arredamenti non sono scarni, non ci sono proprio. Il piano bar è senza il piano, e con un bar a mezzo servizio, altamente pragmatico nel suo aprire mezzora prima dello sbarco, proponendo due tre menù fissi molto semplici, che però la gente consuma con appetito e una specie di gratitudine. La biblioteca non ha né libri né, mi pare, scaffali. Nemmeno i negozi hanno merci, e il cinema, pur funzionante, prevede un solo spettacolo senza repliche che comincia mezz’ora prima di salpare, cioè alle ventidue, e chi sale a bordo all’ultimo non può che provare una nervosa frustrazione per essersi perso l’unica vera distrazione che la nave propone – il film è Rabbit Hole, vecchio di un anno. Ma la maggior parte dei passeggeri vive molto umilmente il viaggio: alcuni bivaccano tutta la notte sulle poltroncine del bar, coprendosi con le giacche a vento, sogguardando nel dormiveglia gli schermi dei mormoranti televisori incastonati ai quattro angoli della grande sala illuminata da faretti giallo limone e calda di un calore che stordisce e rende faticoso addormentarsi, come se si avesse la febbre, mentre la nave stessa vibra febbricitante, al pari di una vetrata scossa da un terremoto innaturalmente duraturo, e altra gente, vitrea e sonnolenta, deambula solo per ammazzare il tempo, o sbanda nei corridoi kubrickiani, ovattati di lurida moquette, tentando di ritrovare la propria cabina, obbligata dagli sbandamenti a varare nuovi passi di danza, oppure si avventura sul ponte picchettato di pozzanghere sottili più simili a veli di umidità salmastra, dove coalizioni di donne russe assaporano le loro sigarette, e pochissimi si collocano coi gomiti sulla balaustra di poppa a fissare le luci di Civitavecchia tremolare come candeline insidiate da una corrente d’aria, restando lì mentre si prende il mare, nella cupa tartarea oscurità del mare notturno, assorti, ma senza stupore, nella meditazione ebete e ottusa del pendolare.

Matteo Fulimeni

 

© Giovanni Marrozzini

 

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© Giovanni Marrozzini

 

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© Giovanni Marrozzini

 

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© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

One Response to “Le notti più belle del mondo.”

  1. Giorgio scrive:

    Il vostro viaggio è quasi giunto al termine, il mio è iniziato, a ritroso, sulle vostre tacce, solo ora. Sarà un viaggio solo virtuale attraverso le foto di Giovanni e i racconti di Matteo. So già da ora, per quel poco che sono riuscito a conoscervi, che sarà molto interessante. Di questo posso solo dirvi grazie. A si biri,

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