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I prossimi fascisti.

Carbonia – E c’è poi la grande miniera di Serbariu, a Carbonia, che ora è un grande museo. Un primo ambiente ricco di teche e cimeli, molto bello, è lo spazio teorico, il museo tradizionale. Eppoi si può scendere giù, in galleria, che è una specie di laboratorio, di prova pratica, se vogliamo, e che ho trovato a tratti impressionante, ma davvero poco utile. I veri rumori della miniera vi sono riprodotti, ma con una violenza dieci volte minore ( a titolo di esempio, come certi passi dei classici nella brutta manualistica universitaria ), e l’ascensore – “la gabbia”, nel gergo tecnico – è adesso un ordinario, cieco ascensore condominiale, che scende con molta meno irruenza della gabbia, e questo per delicatezza, per non urtare la raffinata sensibilità di noi turisti moderni (che però, proprio in veste di turisti o gitanti, gradiamo le accelerazioni antiperistaltiche del Katoon, nel ben noto parco a tema, specialmente dopo un bel Big Mac e l’annessa dispepsia e gara di rutti  ). Un museo può esserci utile? E come? E perché, e in che modo la memoria è un valore, e non un’astratta e distratta parola tappabuchi per scribacchini e telegiornalisti? Noi sappiamo che anche dalla memoria bisogna sapersi difendere, proprio come da tanti insegnamenti inutili o nocivi se non si è pronti o disposti a riceverli, e che la cultura è sempre pedagogica, ma l’insegnamento non lo è quasi mai, prestandosi sempre a un’autorità e a un potere ( Flaiano: A scuola “Sempre caro mi fu quest’ermo colle” diventa “questa collina mi è sempre piaciuta” ). Come tale, un museo sorto, quasi per riconversione, su un luogo brutale, disumano, ma sacro nella misura in cui è tutta la storia di una comunità, assumerà, sia per orgoglio che per autodifesa, un naturale atteggiamento ammonitore, paternalista ( compresi certi eccessi di protezione ), sottolineando soprattutto il divario fra le generazioni, le fatiche sbalorditive che i padri atlanti hanno sopportato per assicurarci un futuro migliore, agiato, ricco, senza grandi difficoltà di ordine pratico, e quindi calcando la mano sugli aspetti raccapriccianti di un lavoro effettivamente atroce, degradante e raccapricciante (ma escludendo quasi del tutto – a parte fotografie che appaiono in certi absidi della galleria, alla quale muovo la mia critica – e che li rappresentano – l’amicizia, i legami fraterni e la lealtà tipici di questi luoghi – elementi ugualmente fondamentali ). Di fronte a ciò, uno può scegliere fra due comportamenti. Il primo non si discosta molto dall’atteggiamento acritico dell’adolescente diligente e cosiddetto brillante in gita scolastica, e prevede una continuativa espressione di stupore osservante e compunto accompagnata da piccole esclamazioni di sdegno (a beneficio unicamente di guide e insegnanti, che le pretendono come prova espiatoria), di fronte alla constatazione che in un posto così, dodici ore in un buio soffocante e assordante a spalare carbone, non si sarebbe durati molto, prima che la soglia d’attenzione cronicamente bassa ( un tempo per la tv, adesso per internet, col suo flusso indiscriminato di informazioni e la derivante ansia sociale di essere al corrente di qualunque amenità o tendenza ) ci destini ancora alle nostre pugnettine digitali e alla nostra smania comunicativa sempre più fatua e inconsistente e autopromozionale, dimostrando chiaramente di non aver fatto vera esperienza di un bel niente, di essere rimasti tali e quali.  E’ un atteggiamento ormai dilagante, e, a questo proposito, è stato bello visitare il Louvre, recentemente, e scoprire che grazie ai poderosi sviluppi della telefonia mobile, tutti quanti possono ormai permettersi di stampare, comodamente a casa, un personale catalogo del Louvre. ( Le narrazioni sono pure testimonianze da quando si sono confuse coi fatti? Google News Docet: leggere un giornale non è una virtù in sé, proprio come vedere soltanto film d’essai ) L’ammirazione distratta e formale, puramente emotiva, anche quando mossa dalle buone intenzioni, non solo non è nobile, ma non vale nulla, perché è gemella del sono indignato emotivo e moralistico delle trasmissioni di Giletti e dei comunicati politici ( che non esitiamo a sputare e disprezzare, giustamente, ma, pure quello, irriflessivamente ), e che ormai pare l’unico atteggiamento consentito, in un paese di ometti e donnette patologicamente permalosi. Ricorrere invece al secondo atteggiamento, che consiste nel pensare, mi piace di più, anche se è più semplice. L’esperienza ci insegna una cosa fondamentale: tutto ciò che è distante, è potenzialmente spaventoso. Così come certe esperienze contemporanee lontane nello spazio sembrano più belle ( le rivoluzioni, ad esempio, sono bellissime, ma sotto casa diventano maleducate ). La lontananza è una distorsione che implica, in ogni giudizio, l’emotività. Standoci dentro, invece, le cose sono semplicemente molto pericolose ( spavento, però, non ne fanno, perché non si ha il distacco per vederle: per questo raramente osserviamo la nostra vita dal di fuori, perché fa spavento.). Vista così la cosa, i moniti per le giovani frivole generazioni e l’onore agli eroici sacrificati, possono avere ancora un valore? Oppure, questa parola, valore, usata in senso assoluto, ottusamente e da tutti, è il risvolto del santo patrono della civiltà – il senso di colpa – impiegata al solo fine di riproporre lo stesso modello di sviluppo, e non solo riproporlo, ma riproporne la necessità, la necessità di sviluppare ancora quello stesso modello come unica-via-possibile per rimediare alle sue stesse crepe,  tramite la celebrazione delle sue pecche più grandi, avallate da quei caduti poi santificati per lo stesso rispetto ipocrita e a prescindere tipico degli epicedi ai padri amorosi e mariti fedeli, in modo tale da continuare con le stesse cazzate di sempre ? C’è qualcuno che può affermare, sinceramente, di emozionarsi ancora, passionalmente, quando alla televisione pubblica guarda il capo dello stato salire a passi sciancati i gradini affumicati dell’altare della patria preparandosi a ripetere lo stesso stantio e nauseabondo collage di formule politichesi per bambini scemi? Il rispetto può essere solo critico, sennò è conformismo. Ma così siamo ridotti. E inoltre, che cos’è questa sciocca gara, continuamente evocata, a chi ha sofferto di più? Forse allora i frugoletti di Serbariu sono eclissati da quelli delle fabbriche di Dickens? Serve una graduatoria? E quelli che hanno alzato il Colosseo avranno sofferto di più o di meno degli schiavi per le Grandi Piramidi? Senza dubbio la sofferenza dell’homo sapiens non è neppure paragonabile a quella del Neanderthal, quel macrocefalo immusonito magari perché consapevole di essersi ficcato nel vicolo cieco evolutivo, e di avere la testa troppo grossa per tirarsene fuori. E perché quando si chiamano in causa i sacrifici, non si considerano mai i fini e i risultati di quei sacrifici? Perché si è tenuti, nel confronto con loro, a uno sguardo esclusivamente retrospettivo? Posso rispettare ma smettere di beatificare generazioni e collettività intere inveteratamente abbindolate dai vuoti arabeschi retorici del rospo in divisa di turno ( Don Milani, ancora molto necessario: L’operaio conosce cento parole; il padrone mille, per questo è lui il padrone ) e pertanto autocondannatesi ai lavori forzati per ottenere la casa spaziosa, con gli elettrodomestici e l’acqua calda e, più tardi, la televisione e la macchina, anche se poi queste comode case non erano altro che dormitori fra spaventosi turni di dodici ore? Considerando pure che in quelle stesse generazioni moltissimi dissidenti altrettanto candidi e poco smaliziati non rinunciavano comunque alla loro libertà, e in miniera ci finivano per essere puniti, a dimostrazione di quanto cosciente fosse il potere della vera essenza di luoghi così, al netto della propaganda, della città giardino? L’invettiva è irrispettosa, ovviamente, perché tanti sacrifici e compromessi erano per i figli e i figli dei figli. Eppure sappiamo tutti cosa significa il benessere che abbiamo ottenuto: solitudine, nevrosi, frustrazione, depressione, scarsa conoscenza di noi stessi,  l’equivoco folle e pretenzioso che ad un alto grado di specializzazione corrisponda un equivalente grado di realizzazione personale e serenità, l’equivoco folle che esista una corrispondenza perfetta fra la creazione e il prodotto, fra la prestazione e l’atto ( soprattutto nel sesso ), la corsa agli studi come la corsa ai saldi, la riduzione prima del nostro corpo, e adesso della nostra anima a merce da promuovere ( facebook, puro esibizionismo onanistico digitale, ne è l’esempio), quelle mostruose occasioni dei colloqui di lavoro nel corso dei quali giovani laureati in psicologia – immediatamente prostituitisi per un po’ di pane e i-pod  – sottopongono le aspirazioni di specializzatissimi poveri cristi a sbrigativi test attitudinali il cui chiaro modello di riferimento – la Gestapo – e la cui bestiale ferocia si celano appena dietro a una bella presenza e a una graziosa moina e, come viatico, a una piccola lusinga da scuola materna ( che si accetta malgrado la prima regola della nostra autonomia prescriva da sempre di non accettare le caramelle da certi soggetti ). L’obiezione, a questo punto, sarebbe la fallacia da minigonna. Si scambia la vittima con il carnefice, qui? In apparenza: la colpa non è nella libertà che ci si prende, ma nell’adesione a una libertà apparente che è invece frutto di una delega, e chi delega per poter poi annunciare la frode e il tradimento, è il complice di quella frode e di quel tradimento, che puntualmente avvengono: infatti, in una società che abbia provveduto a debellare realmente i tabù sessuali una donna sarebbe libera di girare anche nuda, e non sussisterebbe la necessità di stabilire in che verso si sia resa complice di un’aggressione. Se ci fosse un po’ di saggezza, non occorrerebbe ricordare che la vita trova sempre, di epoca in epoca, di luogo in luogo, la strada per rendersi difficile, disgustosa, insopportabile e invivibile. Così, invece della sensazionale galleria, pur interessante, sono il museo di Serbariu, la dettagliata storia di Carbonia, della sua fondazione e del suo sviluppo urbanistico ed economico a possedere un sostanziale, reale valore, ad avere, cioè, forza, effetto e rilevanza. Per far cosa? Anticipare, in parte, un futuro possibile. La storia urbanistica ed economica di Carbonia si presta, in realtà, a una gigantesca anamnesi: sopra, a un livello visibile, la dogmatica e gerarchica urbanistica di regime, con la sua ridicola autarchia, gestita e amministrata da funzionari del potere, soggetti esterni alla vera comunità, o investiti dall’esterno, che dettano la morale e proclamano la propria incorruttibilità. Sotto, nelle viscere della terra, la parte più vitale di una comunità, i corpi che operano, fraternizzano e amano conculcata e sfinita da questi agenti esterni e provvisori, che pure traggono nutrimento dallo sfruttamento che avviene sotto, in un punto invisibile. E’ una elementare immagine psicanalitica, in cui il super-io ha il sopravvento. Eppure noi, che frequentiamo la psicanalisi da tempo, ne siamo fuori? Non lo so, ovviamente, ma provate ad ascoltare i nuovi, rampanti aspiranti riformatori quando si autoproclamano puri, disinteressati, immuni dalle lusinghe del denaro, privi, cioè di qualsiasi contraddizione o debolezza umana, perfettamente coerenti; provate ad ascoltarli mentre annunciano l’avvento di una nuova età dell’oro a partire dalla disponibilità di internet banda larga, fibre ottiche e pannelli fotovoltaici; Osservateli, questi valenti giovanissimi tecnici pieni di lodi e copiosamente sbaciucchiati dai noiosi accademici che li hanno promossi con vigorose strette di mano mentre per mano si fanno accompagnare sul palco del comizio, lasciando che il padrino parli al posto loro ( laudata sii, sora delega ), e la loro mitomane manovalanza tutta impegnata a discutere su chi può vantare il più alto grado di immacolatezza e coerenza, frugando senza scrupoli nel privato e nell’intimo (degli altri) pur di trovare una macchia, un neo, un puntino, sempre loro, sempre gli stessi, quelli che è sublime il Mosè di Michelangelo, purché si appuri che Michelangelo non lo cacciasse nel culo all’apprendista, o che Leonardo, effettivamente, non praticasse la masturbazione all’obitorio. E questo malgrado la paziente disponibilità di Freud, di Jung, di Adler e di Lacan sugli scaffali di quelle biblioteche bazzicate unicamente per svolgere gli squallidi prosaici compitini universitari in un contesto socializzante alternativo alla noiosissima casa nostra pur prestando molta attenzione a laurearsi nei tempi senza imparare niente di niente per non pesare troppo sulle eroiche spalle dei genitori. Il celebre, ambito accesso alla cultura ( Pasolini: io so questo, che chi pretende la libertà, poi non sa cosa farsene) E allora ecco qual è il reale valore di un museo come questo, a cosa serve: serve a capire chi saranno i prossimi fascisti, e in che miniera saremo trasferiti.

Matteo Fulimeni

 

© Giovanni Marrozzini

 

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© Giovanni Marrozzini

 

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4 Responses to “I prossimi fascisti.”

  1. Alessandra scrive:

    Insomma: non salvi nessuno, nemmeno te stesso. Il che ti fa onore, ma non risolve il solito, eterno, problema della storia, dei corsi e ricorsi vichiani e delle rinnovate zone grige fondamento delle nostre società forse già dai tempi dell’uomo di Neanderthal (o come diavolo si scrive).
    Sarà che le femmine, quasi sempre, durante le gite scolastiche annuiscono o si scandalizzano a comando, ma la speranza (parola femminile, non a caso, almeno in italiano) non è ancora morta, nonostante le guerre, le stragi, le rivoluzioni maleducate.
    Sarà illusione (femminile anch’essa), ma se ci fosse anche una sola persona che guardando quei morti ammazzati nel ventre della terra si rendesse conto di quanta fatica, quanta sofferenza è capace l’uomo ne trarrebbe beneficio l’umanità tutta. Però hai ragione: la modernità è tristemente superficiale, di una inconsistenza angosciante.
    Grazie, continua, continuate.

  2. Renzo scrive:

    Quanto schiavo mi sento.Per tutta la mia lunga vita ho cercato un piccolo spazio di libertà,vendendo soltanto il mio lavoro e non altro (evito i puntini),in questo sono stato fortunato,ma lo sò che è stata un’illusione.
    Plagiando Alessandra : Grazie,continua,continuate

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