Varianti concettuali sul ritratto di famiglia

Varianti concettuali sul ritratto di famiglia

Ecco tre Autrici che si interrogano su alcune questioni legate al rapporto fra realtà e rappresentazione della famiglia.

“Le fotografie di Trish Morrissey diventano uno strumento per criticare e contestare l’unità della famiglia e il suo manifesto per eccellenza: il ritratto familiare in cui notare somiglianze, vicinanze, gerarchie e ordini interni.” Veniva presentato così – nel 2014 alla Strozzina -, questo lavoro della Morrissey dal titolo “Front”, realizzato fra il 2005 e il 2007. Si tratta di una serie di ritratti definiti performativi nel senso che la dimensione concettuale del progetto prevede il coinvolgimento nello scatto di persone diverse dall’Autrice.

In giro per le spiagge inglesi e australiane, la Morrissey chiedeva a dei gruppi familiari incontrati per caso di entrarne a far parte al posto della figura femminile, indossandone poi i vestiti e imitandone la posa.

In uno scambio di ruoli, la donna prende così il posto dell’Autrice dietro la macchina fotografica, ed esegue lo scatto. Il parallelo concettuale è con l’album di famiglia, una raccolta di scatti che sebbene siano eseguiti da persone diverse nel tempo, si ritrovano accomunati nella narrazione della storia familiare. Ma non solo: anche la storia familiare, così come nella costruzione dell’album della Morrissey, è segnata da incontri casuali e fortuiti che a volte si trasformano in legami.

Anche nella serie “Constructed Family Portrait” Jamie Diamond ci chiede di mettere in discussione la concezione visiva del ritratto di famiglia, e le ipotesi che sostengono la codificazione linguistica dell’immagine, esplorando l’immagine pubblica della famiglia, i temi della verità fotografica, del genere, della classe, della cultura e dell’identità. L’Autrice invita sconosciuti contattati su Internet e in pubblico a incontrarla in stanze d’albergo affittate appositamente per realizzare dei ritratti di famiglie fittizzie. Quelli che a prima vista appaiono essere ritratti di studio convenzionali, documenti di autentica intimità, sono infatti dei falsi. “Il ritratto di famiglia raffigura una particolare mitologia o uno stereotipo ideale di vita felice, ma la famiglia è una performance in corso in cui vengono assegnati ruoli (…) Mi interessa sia la performance del ritratto, così come il paradigma mutevole della tradizionale struttura familiare.”

Un altro modo per esplorare i temi di classe sociale, età, cultura, condizioni di vita e prospettive future delle famiglie ritratte è quello realizzato da Dita Pepe in “Self portraits with men”, lavoro iniziato 1999 e proseguito fino al 2014: qui l’Autrice realizza degli autoritratti con 30 uomini diversi per rendere visivamente, attraverso queste messe in scena, l’idea che l’identità personale può cambiare in relazione alle altre persone della nostra vita, e alle circostanze circostanti. Un “what-if” per immagini…

Tre Autrici che lavorano dunque utilizzando concettualmente il referente per smascherare l’ingannevolezza del  codice linguistico della foto di famiglia…

Attilio Lauria