Sergio Ceglio – Istanbul


Opera Finalista
di Pippo Pappalardo
“Istanbul” è una metafora, anzi, un “viaggio metaforico”, un disporre della rappresentazione dello spazio e del tempo, che va emergendo dentro e fuori di noi, per agganciare, con un salto linguistico ulteriore, possibili significati, magari quelli che il viaggio incontra poiché liberatesi lungo il percorso. Perché Istanbul? Perché “isten polis”, “questa è la città”, il cui nome assume morfemi lessicali diversi al variar del destino e della storia; perché, come ricorda l’Autore, è una città scissa, divisa, in perenne vigilia di una scelta: porta d’Oriente o d’Occidente? pupilla dell’Islam o radice di tante religioni? culla dello ius romano o tollerata ospite della comunità europea? E già la sequenza si confronta con la storia: chiese latine divenute moschee, oggi, sono musei; e le donne hanno un volto e uno sguardo sempre diverso; ed il fotografo, con felice espressione, dichiara di volere immergersi e penetrare la “meraviglia di una scelta laddove le sue e le altrui paure diventano richiami per la coscienza”. Anche perché la città è creatura dell’uomo per eccellenza e viaggiarvi dentro comporta decifrarne il rapporto interiore. La sequenza, allora, ci parla “di un incessante colloquio con l’inconscio, l’ignoto, il mistero della città”, perché la città, aggiungiamo noi, topos dell’abitare e della modernità, è il luogo dove cercare con evidenza le tracce di una civiltà. Ceglio articola una proposta espressiva di tipo artistico-narrativo laddove gli elementi indagati suggeriscono quanto cercato o intuito; e, talvolta, la sua stessa sorpresa. Ogni incontro è provocato da una domanda, da un’attesa di risposta ma solo le immagini soddisfano la necessità da cui erano nate. E sono immagini raccolte senza rincorrere la realtà, senza meramente obbedire alla ricerca di una nuova forma, senza compiacimenti retinici; immagini, piuttosto, come prelievi sui quali promuovere la trasformazione capace di suggerire, alludere, svelare. Un laboratorio dell’immaginario che, a mio avviso, trova in Ackermann un prestigioso quanto lusinghiero momento di confronto stilistico.
Biografia
E’ nato e vive a Napoli. Qualche anno fa rinviene la macchina fotografica di suo padre, perso in giovane età, e – per una sorta di risveglio genetico – è attraversato da una profondissima emozione: da quel momento inizia a capire la potenza e la bellezza della fotografia. Da autodidatta, comincia a studiare diversi manuali di fotografia, a leggere numerosi saggi e ad osservare – religiosamente – le opere dei più importanti maestri della fotografia internazionale. Partecipa anche a diversi workshop di importanti fotoreporter italiani e fotografi dell’agenzia Magnum. L’ossessione per la fotografia si mescola con un antico interesse per le opere ed il pensiero junghiano (in particolare di James Hillman) ed appare naturale che l’obiettivo sia rivolto alla propria ed alla altrui psiche, per come si manifesta attraverso le immagini. Il mondo, gli altri, il nostro corpo, i nostri desideri e le nostre paure giungono alla coscienza mediata da questo fattore poetico ancestrale, l’immagine, prediligendo il bianco e nero per il suo potere di astrazione. Ha esposto in una mostra personale e in alcune mostre collettive a Napoli ed in Spagna. Sue foto sono state scelte per il libro “La canzone di Napoli” di Peppe Napolitano – “Intra Moenia” Edizioni – (con la prefazione di Moni Ovadia e del cantante Raiz).

 

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