ABBECEDARIO con i calendari di Guido Cecere
ABBECEDARIO
con i calendari di Guido Cecere
SACILE – ex Chiesa San Gregorio
dal 16 al 31 ottobre
da giovedi a sabato 17:00-19:00
domenica 10:00-12:00 / 17:00-19:00
ingresso gratuito con green pass
in ottemperanza alle attuali norme di contenimento
e gestione dell’emergenza sanitaria.
Organizzata da:
IMAGINARIO Gallery
Via Dante, 16 – 33077 Sacile (PN)
Tel. 0434 781818 – info@imaginario.it
Con il Patrocinio e supporto
dell’Amministrazione Comunale di Sacile
e la collaborazione del
Le cose di Guido
Ma che cosa è una cosa? Ecco, basta farsi questa domanda e si precipita in un vortice di tautologia, la piccola giostra verbale dove soggetto e oggetto si scambiano le parti ma nessuno dei due spiega il significato dell’altro. Cosa, la parola più oggettiva del vocabolario, è anche la più generica. Universale addirittura, quasi disumana nella sua pretesa di poter descrivere tutto, comprendere tutto, definire tutto: e non si accorge, nella sua vanità, di essere anche la parola più generica del vocabolario, quella che si può sostituire a tutte le altre, ma svuotandole una per una del loro senso. Cosa?, chiede il bambino che non ha capito, e parola evoca lo spaesamento, il vuoto da riempire. E chissà mai per quale abbaglio i filosofi di tutte le epoche hanno finito per esserne ossessionati, dalla cosa, fino ad aggirarsi ansiosi e sperduti nel labirinto della cosalità, disorientati, in cerca della cosa in sé, Ding an sich, magnifica espressione che coincide con tutto l’esistente, e non indica nulla. Forse anche intimiditi da quella che uno di loro, Jean-Paul Sartre, chiamò appunto La forza delle cose. Espressione che conosciamo bene, che usiamo ogni volta che ci manca il motivo, la ragione, o la volontà o la forza, appunto, per opporsi a ciò che sentiamo come più forte di noi. Le cose ci fanno paura. Ci sovrastano, a volte. Gli oggetti sono diventati più complessi dei comportamenti degli uomini, scrive Jean Baudrillard.I maestri di una volta, attenti a formare non solo la grammatica ma anche lo stile dei loro allievi, raccomandavano, pena voto di insufficienza sul temino, di evitare come la peste quella parolina di quattro lettere. C’è sempre una parola più precisa per definire una cosa. Sarà poi vero? Tra le parole e le cose c’è un baratro, il baratro dell’arbitrario: chi mai ha deciso che questa parola è il nome di quella cosa? Colti da progressiva amnesia, gli abitanti di Macondo (in Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez) appendevano bigliettini sulle cose, per ricordarne il nome: ma dopo un po’ non serviva più, perché non sapevano neppure cos’è un nome. Provate a ripetere dieci, cento volte il nome di una cosa: dopo un po’ vi sembrerà insensato. Parrebbe che l’unico modo per definire una cosa senza alcun pericolo di equivoci sia mostrarla: ecco un bicchiere, e capisci che intendo dire “bicchiere”. Gli scienziati di Lagado (nei Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift), decisi ad evitare le imprecisioni del linguaggio, fanno proprio così: muti, per argomentare si mostrano vicendevolmente degli oggetti. Inconveniente: sono costretti a girare portando sulle spalle il peso di una quantità micidiale di cose. Potrebbe aiutarli la fotografa, però. Un libro con le immagini di tutte le cose del mondo potrebbe essere maneggevole. Chi lo farà?Ho conosciuto un uomo che poteva farlo. Che un po’ lo ha fatto. Perché amava le cose. Con l’amore di un pastore per il suo gregge. Si chiamava Guido. Guido Cecere. Mi invitò a casa sua: era stracolma di cose. Di oggetti, piccoli e grandi, comprati, raccolti, collezionati, ordinati e disposti con amore e precisione. La sua casa non sembrava affatto l’antro di un robivecchi, bensì una Wunderkammer, una stanza delle meraviglie. Poi le fotografava, le sue cose, perché quando ami qualcosa, la vuoi condividere. Io credo che i suoi calendari siano nati così, prima ancora che da una richiesta commerciale, dalla proposta di un committente. Che siano nati dal suo desiderio di mostrare le cosNon solo. Di mostrarle in un certo modo. Un modo sensato, un modo che alla fine producesse più senso della semplice somma delle sue parti. Guido ha prodotto calendari per conto della Ceramica Dolomiti per oltre quarant’anni. Ogni calendario era una piccola avventura della classificazione, un divertimento di arte combinatoria, una sfida all’entropia del mondo. Negli anni 1989 e 1990 la chiave fu l’alfabeto. Che, avendo ventiquattro lettere, si prestava ad essere perfettamente esaurito in due calendari da dodici mesi l’uno. Ora, li ricordiamo tutti, noi vecchi almeno, gli abecedari in forma di immagini appese a un listello di legno, sulle pareti dell’aula, un’immagine per ogni lettera dell’alfabeto, e quella immagine finiva per diventare eponima, iconica, e la lettera che si prestava a illustrare ne veniva in qualche modo invasa, sicché la F ha sempre conservato per me il profumo del fiore, e la C il calore della casa. Poteva forse bastare questa ipostasi della cosa unica a Guido, collezionista della varietà inesauribile del mondo? No di certo. Dal suo magazzino, ecco allora che pescava cinque, dieci oggetti e anche di più, tutti regolarmente inizianti con la lettera del mese. Ma l’arte era disporli, nel quadrato della futura immagine, nelle loro dimensioni reali, in un ordine magicamente perfetto, che saturava il piano senza creare caos, in una convivenza spaziale dove c’era posto per tutti, ed ogni oggetto sembrava creare la propria nicchia adattandosi alla forma dei vicini. C’è una volontà di adamantina chiarezza in questo gioco, c’è un’idea del mondo come luogo della convivenza possibile, della varietà che gioisce, della diversità che arricchisce. C’è un’utopia, forse: quella della razionalità del mondo. Le sue tavole somigliano un po’ a quelle dell’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, ma senza la freddezza un po’ pedante delle incisioni, sarà perché nelle fotografie di Guido i colori brillano, e gli oggettini proiettano soffici ombre staccandosi dallo sfondo, quasi tridimensionali nella loro tattilità.
Forse non dovemmo essere toppo affezionati alle cose. Chi lo è, a volte passa per materialista. Ma gli oggetti di Guido sono fatti della stessa materia del gioco, e nel gioco gli oggetti servono alla fantasia, non alla cupidigia. E poi, dietro ogni oggetto c’è una storia, e la storia è sempre storia di umanità, e la storia dell’umanità è fatta di sentimenti, passioni, emozioni, non solo di cose. Certo, gli oggetti non ci seguiranno nell’aldilà. “Dureranno più del nostro oblio” ebbe a dire Jorge Luis Borges. Ma se li abbiamo prodotti noi, se li abbiamo usati, si caricano dei nostri desideri e delle nostre speranze e un po’ finiscono per somigliarci, e alla fine lasceranno nel mondo la nostra impronta quando noi non ci saremo più.
Michele Smargiassi
settembre 2021