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Un volo tranquillo.

Pietrapertosa (PZ) – Arriviamo presto al punto. Malgrado il nome celestiale, il volo dell’angelo è in realtà una terrificante attrazione nei pressi di Pietrapertosa, sui monti del Ponentino, e consta di un cavo d’acciaio teso fra due picchi calcarei sul quale scorre una carrucola dove vi imbracano proni e incaprettati, faccia avanti come Christopher Reeve, mani dietro la schiena come Patrick de Gayardon e vi fanno viaggiare a cinquanta chilometri all’ora sopra cinquecento metri di crepaccio per due minuti lunghissimi. E domenica Cinque Giugno duemilaundici succede che mi faccio un voletto su questo coso, proprio io, il bambino che non salì mai sulle catene grandi, quello che implorava inutilmente il viso zingaro e mellifluo del manovratore della nave pirata di fermare la maledetta nave, l’adolescente che sul Tagadà già prenotava una seduta dal chiropratico, quello che non si può affacciare da un belvedere, io in persona, noto esponente dei grandi e irrecuperabili paurosi.

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Arriviamo presto al punto. Malgrado il nome celestiale, il volo dell’angelo è in realtà una terrificante attrazione nei pressi di Pietrapertosa, sui monti del Ponentino, e consta di un cavo d’acciaio teso fra due picchi calcarei sul quale scorre una carrucola dove vi imbracano proni e incaprettati, faccia avanti come Christopher Reeve, mani dietro la schiena come Patrick de Gayardon e vi fanno viaggiare a cinquanta chilometri all’ora sopra cinquecento metri di crepaccio per due minuti lunghissimi. E domenica Cinque Giugno duemilaundici succede che mi faccio un voletto su questo coso, proprio io, il bambino che non salì mai sulle catene grandi, quello che implorava inutilmente il viso zingaro e mellifluo del manovratore della nave pirata di fermare la maledetta nave, l’adolescente che sul Tagadà già prenotava una seduta dal chiropratico, quello che non si può affacciare da un belvedere, io in persona, noto esponente dei grandi e irrecuperabili paurosi. E a dire il vero io il volo dell’angelo non volevo mica farlo. Com’era abbastanza prevedibile. Che non si ponesse il problema di partecipare all’esperienza mi è parso chiaro non appena arrivati a Pietrapertosa, quando levo timoroso gli occhi e discerno il piccolo cavo allungarsi nel nulla, fra nubi basse e sinistre, temibile e altero e dileggiante come il filo del bucato di King Kong. E’ impraticabile, penso. Probabilmente collasserei lungo il percorso schiumando copiosamente e dall’altra parte tenterebbero inutilmente di rianimarmi. Questo nel caso di là dovessi arrivarci. Più facile che al mio passaggio si stucchi il cavo. Di fronte a situazioni di avvertito e irrazionale pericolo panico, le mie fantasie narcissiche non prevedono alcuna possibilità di salvezza e si fermano al macabro, ossia, presumono che sia inevitabilmente io li protagonista del tragico incidente a bassissima probabilità, e che questo non sia altro che il famoso appuntamento col destino. Cadere da lì deve essere abbastanza umiliante, sospetto. Il grido inutile che ti fa sentire stupido pure prima di morire. Mi immagino la busta postale con il risarcimento a casa dei miei. Poi deglutisco. Ma insomma, sono tanto focalizzato su questo tipo di tragiche evoluzioni che siamo già alla biglietteria, laddove, secondo i piani, sarà tutto nelle mani del nostro intrepido impavido C. – per oggi cameraman estremo. La biglietteria è praticamente al centro di Pietrapetrosa, in mezzo ad un laghetto di case dai tetti di un rosso stinto e uniforme, sotto alle rocce calcaree che sembrano grossi pezzi di DAS con gli intagli, le plissettature e gli affondi di dita mostruose. Noto che accanto alla biglietteria del volo dell’angelo c’è, bello indicato, uno spazioso quanto provvidenziale W.C. Comunque io lassù non ci vado. In questo paese tutti sembrano avere qualcosa a che fare con la faccenda dell’angelo. Come se fosse un’attrazione a gestione familiare, come una trattoria o che so io. La biglietteria pare il banchetto per gli scrutini in una scuola media. In effetti – mi dice la signora rossa seduta sul muretto accanto alla bambina che presumo essere sua figlia – questa era una scuola media. L’uomo col quale parlottiamo e scherziamo bonariamente per tutto il tempo in cui C. fa il biglietto e parlamenta sulla possibilità di fare una ripresa del volo, e con il quale discutiamo del fatto che si ha o meno paura di certe cose, che è una questione quasi cromosomica eccetera ad un certo punto ci lascia, sale in macchina e la signora rossa seduta sul muretto lo saluta e capiamo che si trattava del sindaco. Chi l’avrebbe detto? Poi G. comincia la sua immancabile e mefistofelica opera di persuasione del sottoscritto. “ E’ una cosa futile “ – dico. “ Eh si, è futile “ – dice, rassicurandomi. La persuasione è mefistofelica in questo: che sembra non esistere, non ostinarsi, asseconda le mie buone ragioni. Poi affonda: “ Capita una volta nella vita, però “. Bestemmio interiormente. Anche stavolta la sensazione umiliante di deludere tutti. Ma che si aspettano. E’ congenito, tutto questo. “ Pensa che pezzo potresti scrivere! “. Mi fermo a riflettere, e faccio una veloce torsione mentale autoassolutoria per capire che benché la scrittura si nutra del vissuto, oltre che di letteratura, la grande letteratura fu per la maggior parte scritta da un sacco di gente che non poteva volare su un precipizio con la schiena ancorata ad una carrucola che scorre su un cavo d’acciaio. Penso a Tolstoij nella sua casetta. A Kafka e ai suoi interminabili pisolini pomeridiani. Il fumigare lento e flemmatico dei camini. La vita noiosa di questa gente. Una giustificazione più che vigliacca, altezzosa. “Vabè, io il biglietto te lo faccio“. “ Non lo rimborsano” – dico. “ Non fa niente” – ribatte G. Odio l’astuzia che si nasconde dietro confabulazioni come queste, dall’apparenza innocua. La parte di me che sotto sotto non desidera altro che cimentarsi col rischio concreto di morire sfracellata è assolutamente lusingata da questa fiduciosa e libera imposizione. C’è qualcosa di pedagogicamente perverso nelle maniere di G. Non ci si può sottrarre. E’ odioso. E così siamo già in cima alla montagna, alla capanna dove ti bardano per gettarti nel vuoto, il sole è caldo e sbiadito. “Io non mi tuffo da lì, muoio”. “ Fidati di me”. “ Di te mi fido, è di me che non mi fido”. “ Tu intanto preparati, poi quando sei lì decidi ”. Guardo con eufemistica preoccupazione la piattaforma lontana, metallo scintillante nel sole, ultimo avamposto prima del vuoto. Deglutisco. Deglutire pare sia la piccola sineddoche di giornata. Non ho manco digerito. Il sugo di carne mi è rimasto qui, torpido e venefico. Adesso anche il caffè mi è tornato sul palato molle. E c’è gente che brama tutto questo. Ho visto drappelli di ragazzi arrembanti e allegri. Ragazze rimproverare le proprie madri per essere state concepite dopo il millenovecentonovantacinque. La capanna è piena di svariate bardature. Nella capanna c’è una donna che mi assicura che il sistema è perfetto. E’ molto difficile che il cavo si stacchi. “ Ah, beh, allora”. La bardatura consiste in un paramento a metà fra una tuta da Hockey e una parannanza, con tutta l’imbracatura in cui devi infilare le gambe (Perché certi ganci sono di plastica?). Le mie gambe hanno la consistenza del burro. Fuso. Mi tremano le mani. C’è qualcosa di ironico nel fatto che ti facciano indossare un casco. Prima però devi infilarti una retina in testa. “ Questa è se mi cadono i capelli? “. Sono incredibilmente ilare prima di morire. Faccio battute di sgraziata acidità. In realtà non so con chi prendermela. D’altra parte posso cambiare idea in qualsiasi momento, ma tutto quello che faccio è informarmi con patetica indiscrezione su ganci, pesi e cavi d’emergenza. “ Sai quanti ce ne sono? “ – assicura la donna. Però quanti non me lo dice. E mi appioppa la carrucola d’acciaio sulla quale mi appenderanno, e adesso mi avvio verso la piattaforma di lancio, con la rassegnazione del condannato e l’attenzione clinica del suicida agli ultimi sguardi che getta sul mondo. Moccoli vari evaporano dalle labbra, mentre mi appropinquo alla scaletta tutto imbozzolato. C. parte prima di me. Non fa una piega. Lo vedo rimpicciolirsi nell’immensità. Voglio scappare via. Inizio a sudare freddo, c’ho tutta una pellicola gelida e gelatinosa sulla fronte. Due minuti e tocca a me. Salgo lentamente sul patibolo. Devo essere ceruleo, e non articolo una parola. Ho il corpo che è al contempo molle e teso. Mi fanno girare lateralmente e mi attaccano tutto l’ambaradan là dietro e io non vedo niente di ciò da cui dipende la mia vita. Mi rimettono in posizione frontale e mi dicono di buttarmi in avanti, che sono imbracato. “Alza i piedi!”. Il mio impaccio si manifesta con evidenza anche in questa piccola mossa: è proprio nella mia incapacità di fidarmi che sta il problema. In avanti non mi ci getto. Ho scarsa dimestichezza persino con le capriole. Finisce che mi piego solo col busto e non ho la minima intenzione di staccare i piedi. Non so fare bene nemmeno il tuffo in piscina. C’è qualcosa di proditorio, penso, nell’essere lanciati nel vuoto da qualcuno che hai alle spalle e non puoi girarti a guardare. E’ come essere presi a calci direttamente da Dio Padre. Però, alla fine,non si sa come, sono tutto lungo e sospeso. La bardatura pare non lasciarmi respirare, il diaframma è costretto. Ho paura di vomitare. E qui sto per crollare. I prossimi due minuti mi si parano di fronte come una cosa insormontabile. Faccio un disperatissimo no con l’indice. Scuoto la testa a labbra serrate. “ Niente. Scendo. Non ce la faccio. Non lo faccio ”. G. si è strategicamente posizionato per immortalarmi. “Adesso no! Non puoi più “ – grida. “Eh!” – è l’insulsa e vascorossiana interiezione che mi scappa dai denti. Su quel che pare una specie di balconata nella roccia i curiosi osservano la mia profonda titubanza con la solita e arcinota faccia che gli dai soddisfazione di pensare che in fondo non sono poi tanto caconi se gli piace solo guardare. Maledetti curiosi. E’ a voi che la faccio. Ed è inutile se alcuni di voialtri fanno facce sinceramente compassionevoli. La ragazza sostiene che “L’hanno fatto proprio tutti. E’ un volo tranquillo “. Che significa “è un volo tranquillo?”. Vi pare tranquillo e naturale tutto questo? “L’ha fatto pure una signora di novantasette anni “. Ecco, questo non doveva dirmelo, dal momento che nutro la modesta ambizione di arrivarci, ad una certa età. La vecchia non aveva niente da perdere. I curiosi pronti a chiamare l’ambulanza, i visi di quella preoccupazione morbosa. “ Novantasette anni ?” – certo, a novantasette anni, se sei sano, devi aver raggiunto una certa pacifica accettazione della morte, io non ce l’ho. “Quanti cavi di sicurezza ci sono? “. “ Non sai quanti ce ne sono! “. Ancora questa esasperante vaghezza. “ Anch’io soffro di vertigini” – fa il ragazzo che mi dovrebbe lanciare. Non vedo perché la cosa dovrebbe consolarmi. E quelli mi danno il tempo di dire una veloce bugia sulle mie condizioni di pre-infartuato e di prendere due lunghi respiri per rallentare il battito impazzito del cuore eppoi mi augurano un “buon volo” di una crudele doppiezza eppoi sganciano tutto eppoi io inizio a filare come una freccia sopra la roccia. Volo. E per un attimo commetto l’errore capitale di irrigidirmi, cosa che esacerba il senso di caduta libera e quella stretta allo stomaco che tanto odio. Allora capisco di dovermi rilassare, e passa. All’inizio, la terra del crinale, ancora piuttosto vicina, ti fa da sistema di riferimento e ti pare di andare come un jet. La carrucola fa il sibilo di un jet. Ma poi sbuchi sopra al baratro e lì ti pare di fermarti. Gli alberi piccoli punti laggiù. La topografia satellitare. E non ci credete che quando arrivi qua sopra provi un senso di libertà e ti metti a gridare un manieristico “seeee!” o cose come quelle che gridava il tipo di Into the Wild nella natura selvaggia, perché io qua sopra, con le mie vertigini patologiche, continuo ad avere una discreta paura. Una moderata paura. Una paura sostanziosa. Una paura incallita. Una paura della Madonna. La zona scrotale si ritrae e si astringe e riassume sembianze prepuberali e finalmente capisco perché ‘sto posto si chiama il volo dell’angelo. Non ha a che fare con il volo, la raison d’etre sta nella metamorfosi anatomica. Ma è anche bellissimo, in qualche modo. Sopra all’abisso, col fiumiciattolo che è un filo di fango laggiù e i pensieri che non si sa dove vanno. Chiudo gli occhi al ritmo del diaframma, e conto uno ad uno tutti i respiri. Il mondo va in dissolvenza coi battiti sistolici. Profondi e voluttuosi respiri, tendenti allo strozzamento. Il sangue pompato nelle arterie. Il corpo che si tende e si rilassa. La precarietà. L’ineluttabilità e il fatalismo. I piedi nudi che si abbrancano al sostegno. Qua sopra pare davvero di stare fermi. Il tempo si dilata e si tende. L’unico riferimento per il moto è un cavo che sta in alto a sinistra e che è scandito da boe segnaletiche. E che io speravo fosse il famoso cavo di sicurezza. Ma non lo è. Ma non lo guardo, perché il senso della velocità mi atterrisce più del vuoto. Invece l’idea di galleggiare è leggermente sedativa, e, non so perché, adoro guardare in basso. Sarà banale, ma siamo altissimi! E non so quanto duri oggettivamente tutto questo, ma dopo un’eternità di sospensione angelica sopra la terra, ti avvicini progressivamente al crinale di fronte, e di nuovo riacquisti il senso del moto. La terra ti scorre sotto a grande velocità, e questo è adrenalinico e pazzesco. Fili dritto come un’ape. Sempre più veloce. Voli fra i tetti come un proiettile. Sei all’epilogo, pensi. Entri fra le case come in un tunnel. Vedi la piattaforma che si ingrandisce e si zooma. E vedi la montagna là davanti. E Il muro di roccia. E vedi di nuovo i curiosi che guardano. E sei praticamente arrivato. E come ci si ferma? E tu sempre più lanciato. E il monte sempre più vicino. E hai l’ultimo singhiozzo di paura. Ma è bellissimo. E uno schiocco. E uno strappo. E un rimbalzo elastico. Penzoli. E’ tutto finito. Sei vivo.

Matteo Fulimeni

 

© Giovanni Marrozzini

 

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7 Responses to “Un volo tranquillo.”

  1. Mariateresa scrive:

    L’hai fatto davvero!?!??!?!?! Io ci sono stata a gennaio, ma d’inverno non si può…volare!
    grandissimo!!!! :)

  2. Mariateresa scrive:

    (fra l’altro a Pietrapertosa sono piuttosto preoccupati perché a breve scadrà il contratto con i costruttori del volo dell’angelo e non saranno più gli unici in Italia ad averlo in esclusiva e quindi perderanno parte del turismo che portava :( )
    (e vi siete fatti raccontare la storia della scuola di Pietrapertosa? Il Ministero voleva togliere la scuola dal paese anni fa per il basso numero di iscritta e allora il sindaco di quel momento, per tenersela stretta e non costringere i bambini a dover andare al paese vicino, ha fatto iscrivere tutti gli abitanti del paese non ancora diplomati :)) (scusate è che volevo raccontare la mia avventura in quel posto da fiaba arroccato sulle dolomiti lucane… :))

  3. Rosalia scrive:

    Sempre più DONNAVVENTURA! (Avete presente la serie?) versione maschile… beati voi, buon divertimento e buon lavoro

  4. Rosalia scrive:

    Matteo sei un mito! Mi sono perfettamente immedesimata con te. Mi è venuta pure la tachicardia… e che risate! grazie

  5. Lucia scrive:

    Video e articolo sono perfettamente combinati! Sembra proprio di stare lì! Complimenti!!!

  6. Mariateresa scrive:

    l’ho fatto domenica. lo rifarei ora! :)

  7. Fabrizio scrive:

    Bravissimo Matteo, davvero bravo. La lettura è scorrevole, appassionante..hai un gran bel vocabolario. Sono finito sul tuo blog perchè ero alla ricerca di informazioni sul volo dell’angelo…sono di matera, ho sentito spesso parlare di questo, ho visto le foto dei paesi, bellissime, e non essendo mai stato mi piacerebbe approfittare di questi giorni di ferie per andarci. Ma, ho il tuo stesso problema…una paura annichilente,e temo anche io che, andando lì con i miei amici solo per un’escursione, finirei per essere convinto a provare l’emozione del volo. Sai, mi sembra quasi di vivere i momenti preparatori al volo, ed è una sensazione bruttissima!! Come quando devi fare un tuffo da qualche metro di altezza…sei lì su che pensi a tutto quello che potrebbe succederti…vedi i bambini che saltano senza paura ma non basta, perchè pensi che potresti scivolare e sbattere la testa. Poi, quando (e se) ce la fai, ti sembra tutto mozzafiato!! Immagino questo sia all’ennesima potenza…. Chissà se ce la farò…ti farò sapere.
    Ciao e..grazie! :)
    Fabrizio

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