© Giovanni Marrozzini

Fumi di colossali battaglie.

Campo Imperatore (AQ) – La pioggia arriva da quello che mi sono ormai persuaso essere l’est, tutto vaporizzato e grigio, in una nube sinistra che avanza immobile e inesorabile, mentre sulla strada alla nostra destra la luce senza luce ha reso i colori così saturi che la strada e i campi e le onde e le dune e le tonde gibbosità sembrano sul punto di liquefarsi in un rimescolio di colori primari: è tutto eccezionalmente nitido, e brilla. Un oscuro brillio. Quarantacinque gradi alla mia destra, immerso in vaporosi, bianchi viluppi torreggianti, il Corno Grande si staglia quasi ologrammatico, avulso dalle basse tenebre tutt’attorno, accecante come l’avamposto di un luminosissimo reame. In controluce, la pioggia si conta goccia per goccia. Sembrano ciondoli di Swarovski.

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Lontano da dove siamo, presumo più a est, vediamo le ombre allungarsi, spandersi e sformarsi come scure chiazze d’olio nel cielo già rabbuiato. In staffette veloci, sospinte da un vento che scorre poco più in alto, e che qui non avvertiamo se non nella sua blanda ricaduta, vanno compattandosi proprio nella direzione in cui guarderemmo se non fossimo richiamati dallo spettacolo dell’altipiano a sinistra, screziato e cangiante, dagli accecanti spiragli luminosi accostati a buie campiture, blu profondo, sopra le dune verde cupo. Qui fa fresco e sta per piovere. Il vento, che in questo posto soffia con invariabile costanza da millenni, ha disegnato curve semplici e morbidissime, ricoprendo tutto l’altipiano di timide asperità che spesso, nei punti di pianura, ondulano il terreno in un susseguirsi di lunghi, deboli frangenti, o si alzano con più audacia in forme pingui e bombate sul punto di rotolare più in basso per il peso, sfrangiate e picchiettate di ciottoli e rocce, percorse dai solchi di antiche morene.

Agli argini dell’unica strada che serve l’altipiano, sottile, scura e curvilinea, la terra si sporge in lunghi becchi dove si vedono scendere nude radici. E’ tutto verde d’erba, ma di quel verde inibito dei monti, mai troppo esplosivo o sgargiante, un colore indurito dalle avversità, pieno di disincanto, ed è chiaro che ondeggia tutto e si piega poeticamente tutto eccetera. Anche i fiori a loro modo sono sacrificati dal punto di vista estetico, affondati come sono in cespugli massicci, spinosi, irremovibili. Immagino che in inverno il posto dia l’impressione del dorso panciuto di una nuvola. Il vento, tra l’altro, ha semidivelto una miriade di paletti segnalatori gialli e neri, che si presentano in molteplici angoli di piegatura. Onde, dune e tonde gibbosità. Ogni tanto qualche curvo steccato di filo spinato. Questo per chilometri fino al punto in cui l’orizzonte è chiuso dalle brulle e intimorenti pareti del Gran Sasso, scure e tendenti all’azzurro cupo o al rosa corallo se battute dal sole, e dove adesso si vanno ammassando le nuvole, densamente scure come sangue venoso, e scende il filo viola di un lampo, seguito da uno schianto amplificato dai mille crinali qua attorno: un gran botto veramente.

La pioggia arriva da quello che mi sono ormai persuaso essere l’est, tutto vaporizzato e grigio, in una nube sinistra che avanza immobile e inesorabile, mentre sulla strada alla nostra destra la luce senza luce ha reso i colori così saturi che la strada e i campi e le onde e le dune e le tonde gibbosità sembrano sul punto di liquefarsi in un rimescolio di colori primari: è tutto eccezionalmente nitido, e brilla. Un oscuro brillio. Quarantacinque gradi alla mia destra, immerso in vaporosi, bianchi viluppi torreggianti, il Corno Grande si staglia quasi ologrammatico, avulso dalle basse tenebre tutt’attorno, accecante come l’avamposto di un luminosissimo reame. In controluce, la pioggia si conta goccia per goccia. Sembrano ciondoli di Swarovski. Piovendo, l’aria assume un unico odore saporito che mescola asfalto, letame e stoppie bagnate. In certi punti là in alto si disegnano linee livide e nette che si affastellano a fasce di cielo azzurro scurissimo. Un sereno abborracciato. Sulle lunghe creste più avanti, sotto le pendici, un vasto armento procede in un’unica direzione, come fuggendo, e le bestie sono così lontane e così piccole, che il movimento ha una surreale immobilità, una lenta avanzata olistica, un po’ come vedere le onde del mare da grandi altezze: ma anche da qui si possono distinguere le code scudisciare l’aria. Hanno un’aurea di chiarore, nel basso vapore temporalesco: tutti quei dorsi muscolosi ammaccati dalla pioggia.

Nuvole piombano nell’altipiano decapitando i monti più alti e si insinuano lentamente in ogni recesso della valle. Scendono e risalgono le chine e sfociano in fluide appendici sulla strada, come un fumo scenico che si posa e galleggia e staziona, divorando i più brevi orizzonti e immergendoli in un tenebroso chiarore, latteo e opalescente. Un’ignoranza viscosa. Vapori di immani cucine. Fumi di colossali battaglie. Emissario inatteso di un altro mondo. Eco di suoni solidi. Quando la nebbia scende la pioggia non cade più.

Matteo Fulimeni

 

© Giovanni Marrozzini

 

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3 Responses to “Fumi di colossali battaglie.”

  1. Mariateresa scrive:

    avvistato un cavallo bianco.

  2. Raoul Iacometti scrive:

    Meravigliosa serie!
    Un abbraccio
    raoul

  3. Bruno Colalongo scrive:

    La zona più mutevole dell’Abruzzo.
    ogni attimo è diversamente colorato, illuminato e di temperatura non uguale.

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