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Quella linea sottile.

Comunità terapeutica per tossicodipendenti “L’Arcobaleno” (Comunità di Capodarco)

Fermo – No. Non so cosa mi chiedi, ma… no. Direi di no. Però se vuoi ti posso dire cose che per me, voglio dire… per me hanno significato molto. Che mi hanno ferito, che sono state pesanti. Non so come dire. Soltanto non so se è il caso di passare per scemo [ride]. Eppoi io sono stanco di essere giustificato, alla fine. Però, vediamo, non mi prendi per scemo se ti dico che il  ricordo ricorrente che ho di mio padre è la sua nuca squadrata che spunta dallo schienale del divano? La sua nuca perfettamente squadrata e limata, coi capelli rasati e tutto e…ah, e sopra seghettati, proprio seghettati, frastagliati e che quando rientravo da quelle…quelle insulse ripetizioni, con la tipa delle ripetizioni…beh,  io passavo dietro al divano, in quella specie di corridoio che si formava fra il muro del soggiorno e il divano, e lì, se mi mettevo proprio dritto perfetto dietro mio padre, dietro la sua nuca squadrata, e qualche volta l’ho fatto, potevo vedere tutta la frastagliatura dei capelli disegnarsi nitidissima davanti alla televisione sempre accesa, con quella sua luce blu che riverberava nel soggiorno scuro e lo faceva sembrare un acquario. Sono scemo se ti dico questo? Se ti dico che questo era, in qualche modo che non so spiegarti, insopportabile ? Vedevo la vera e propria salma di mio padre sul divano, davanti alla televisione, nella stanza blu, e mentre me ne andavo, quando già ero nel corridoio, lui faceva uno strano miagolio che doveva essere un saluto. Una cosa tipo “aoooo”, un richiamo elettrico, tintinnante, e mi faceva schifo perché lui lo riteneva simpatico. E finiva lì. […] Di mia madre cosa mi ricordo. Di mia madre mi ricordo che non sorrideva mai. Aveva –  l’hai mai vista una persona così? – Aveva queste labbra filiformi, sottilissime, e non rideva praticamente mai, e in più quell’aria, come dire, quell’aria pesantissima di chi, boh, sente una specie di ingratitudine per come sono…per come sono andate le cose. Io a mia madre volevo…voglio bene. Su questo c’è da dire qualcosa. Comunque, mi ricordo che sgattaiolava da una stanza all’altra. Questa era, si può dire, la sua caratteristica. Letteralmente scompariva dalla stanza dove credevi che l’avresti trovata, e invece era già da un’altra parte. Non è che lo facesse perché stesse lì ad aspettare di scomparire, o che qualcuno la guardasse scomparire, o che avesse sviluppato una tecnica o che so, no…lei aveva questi movimenti lenti, lentissimi, compassati, stanchi, proprio di una persona rassegnata, senza, mmhm, senza più indignazione, può essere  la parola giusta?  Cioè non lottava più, capito? Era senza energia, perennemente [lunga pausa assorta] …e insomma, scompariva, ma senza volerlo. Stava lì, in bagno, a guardare la centrifuga della lavatrice e a fumare, e tu lo sapevi, che stava lì a fumare con quella sua solita indolenza che ti faceva venir voglia di abbracciarla. Poi, di colpo, era tutta da un’altra parte. Mia madre era un fantasma, pensavo. E in più mi faceva dei regali. Regali senza una giustificazione. Non si celebrava niente, e, insomma, io a scuola andavo pure male e neanche quello si poteva celebrare, ma lei sentiva il bisogno, ogni tanto, di farmi questi regali, soldi, perlopiù. Arrivava senza che la sentissi e ti toccava magari la spalla, ti giravi e c’era lei. Lei che voleva regalarti questi soldi. Li teneva stretti in un pugno, e te li versava nel palmo prima di chiuderlo con le sue mani, e tu manco li potevi vedere che già ce li avevi stretti in mano. Mia madre lavorava, si. Una lavanderia industriale, faceva l’operaia. Aveva il suo stipendio…E, insomma, compariva dietro di te, ti dava i soldi e diceva sempre questa cosa che nel tempo, allora non ci pensavo, ma nel tempo ho cominciato a pensare che fosse ambigua, una cosa tipo “Ti vuole bene, mamma”. La cogli l’ambiguità? Non è tanto…si, non è tanto quello che dice, ma…[breve pausa assorta]…quel mamma alla fine, dopo una pausa che sembrava proprio studiata, e che piano piano ho iniziato  a considerare eloquente, in qualche modo… [fissa qualcosa].

Comunque questa era mamma, e le volevo bene. E adesso…c’è da dire che quando è scoppiato il bubbone, quand’è esplosa la piaga, quando c’è stato il versamento di pus, la sepsi, la suppurazione …si, io qui dico così, tutti i ragazzi lo sanno, ma quando è…insomma quando ho iniziato a farmi da matti la cosa che ha iniziato a ferirmi e farmi sentire una merda dentro, veramente una persona deplorevole e di merda, senza tra l’altro riuscire a farci niente, è stato che a quei soldi ero legato ormai per il verso che puoi immaginare. Si, qui è il tasto dolente. Il fatto dei regali. A quel punto mia mamma che gli volevo bene, che gli voglio bene, che cerco di capire in che modo ancora le voglio bene, era o non era una marionetta nelle mie mani?  Quel suo modo di affrancarsi…di affrancarsi dal dolore per la propria vita andata veramente male, secondo lei, quel suo modo strambo e, boh, in qualche maniera innocente di darti questi soldi, che non era affatto desiderio di comprarti, ma qualcos’altro che non so dire ma che so con certezza a suo modo puro …era, come si dice, adesso era adulterato, infettato dal mio…avido interesse. Ecco perché non ti posso dire di essere stato traumatizzato da qualcosa di davvero rilevante, evidente e chiaro.  Clinicamente chiaro. Non voglio meritarmelo, il trauma. Qui il fatto è che io le cose le vivevo male. Sai…a chi altro sarebbe venuto in mente di avvilirsi se il padre galleggiava in un acquario a guardare programmi poco interessanti alla televisione generalista? Voglio dire, viviti la tua vita…Non lo so, era come se un lunghissimo cordone ombelicale mi legasse ancora a loro, compresi difetti e tare…Come se loro mi nutrissero ancora, letteralmente, e non sapessi come nutrirmi, diversamente…Io amavo quello che mi avvelenava, e mi avvelenavo d’amore. Malatissimo amore. E non ti sto a parlare delle donne. Forse, comunque, questo è corretto.  E non lavoravo per costruire qualcosa di veramente mio,  c’è da dire, più che altro ho iniziato a pensare solo alla maniera di evadere da tutto. Tutto quello che odiavo e amavo, da cui mi potevo allontanare senza poter fuggire, e invece volevo fuggire, e per farlo, sta qui il paradosso, per farlo sono diventato come tutti quelli che odiavo e mi facevano star male e dai quali non riuscivo a staccarmi, e anch’io ho concluso che galleggiavo nel mio bell’acquario, e in pratica posso dire di essermi reso completamente egoista, ma egoista in quella forma del tutto autistica, che se uno mi voleva aiutare io alzavo letteralmente le mani e dicevo cose imperdonabili che dimenticavo due minuti dopo per –  lo posso dire? – per salvare la mia anima, e quello giustamente se ne andava per la sua strada, e io, alla fine, rimpiangevo un sacco di cose: di non poter dire di amare sinceramente mia madre, di non aver capito chi è mio padre, di non riuscire a stare con gli altri se non per…per utilizzarli, compresa mia madre. Che poi adesso, a mia madre,  davo pure una ragione in più per credere che il dolore fosse veramente concreto e tangibile, io adesso ero la…la sostanza fisica del suo dolore, la realizzazione, il compimento della sua disfatta. Forse l’unica cosa che sentiva di aver fatto di buono nella vita ero alla fine diventato io, che mi vedi qui che parlo con te, e non sono proprio il massimo, a lavorare per smettere e staccare la sepsi e la suppurazione. Per non farmi più, e non faccio che barcollare, tirarmi su e dirmi senti qua che forza, stavolta ce la faccio, eppoi qualcuno mi prende alle spalle, quando non mi prende per le palle, e mi atterra e io di nuovo…Vabè. [Pausa]

Insomma, che vuoi andare a cercare i traumi? C’è davvero una colpa se le cose sono andate così ? Anzi, ti dirò che, a pensarci  bene, non credo di aver mai cercato niente dentro al mondo, per una sorta di pigrizia, di indolenza. Ma anche di inermità. A lungo sono stato molto innocente, però ad un certo punto l’innocenza è una colpa, questo l’ho capito. Non si può essere a lungo innocenti. Solo che il dolore, quel dolore alla fine iniziavi a credere che fosse davvero il peso di tutto il mondo, e che fosse toccato a te sostenerlo, e ti domandavi se valeva la pena di sostenere un mondo tanto meschino… [lunghissima pausa assorta seguita da un sorriso disteso] ti voglio raccontare un vecchio episodio. Anche questo può sembrare insignificante. Non è un trauma, come quelli che tu vai cercando, lo so che vai cercando Il Trauma, ma non lo è. Forse è un piccolo trauma, d’accordo. Io preferisco chiamarlo chiara e lucida presa di coscienza. Fu la prima volta che provai quella nausea totale, quel senso di… come chiamarlo…appiattimento di tutte le cose vive. Ricordo che avevo appena otto anni. Si, credo proprio otto anni. Era un pomeriggio di luglio, un pomeriggio caldissimo d’estate, dei rumori venivano dalla cucina. L’aria era tutta arancione, per quanto era caldo. Sul fondo della cucina c’era la sagoma nera di mio padre, in controluce davanti alle finestrelle sopra il lavello. Stava piegato sopra al lavello, con la testa quasi dentro al lavello e tutte e due le braccia dentro al lavello. Aveva la camicia chiazzata di sudore. Dal lavello veniva un rumore metallico. Faccio: “Babbo, che fai?”. Lui fa: “Cerco di salvare la mia fede del cazzo”. Che significava? Che stava pregando? Lui invece dice: “Vieni qua e dammi una mano”. Ho preso una sedia e l’ho messa accanto a mio padre che adesso si era tirato su e guaiva per il dolore. Mio padre continuava a tenere la mano destra nel lavello e con la sinistra si massaggiava la schiena. Ho messo lì la sedia e mi ci sono arrampicato e ho guardato in fondo al lavello. Fra le maglie della griglia del lavello c’era la fede nuziale. Brillava, mi ricordo. E stava lì, pericolante, rischiando di finire nel tubo. Mi sono piegato dentro al lavello fin quasi a caderci e ho detto: “Forse ce la faccio”. A quel punto mio padre ha mollato la presa senza preavviso e l’anello è scivolato ancora più in basso e io l’ho recuperato non si sa come, preoccupatissimo, eppoi mio padre si è allontanato senza dire niente. L’ho sentito spostare una seggiola e, dopo un po’, spaginare il giornale. Riuscivo a reggere l’anello stringendolo fra il mignolo e il bordo di una maglia della grata, era appeso così, e con l’altra mano tentavo di sollevarlo. Avrò tentato per dieci minuti, e mi rendevo conto che ciò che mi impediva di recuperare l’anello era che, allo stesso tempo, non potevo rischiare di perderlo. Fu a quel punto che prese a squillare il telefono senza che mio padre andasse a rispondere. Il telefono fa tutta la sua serie ininterrotta di squilli senza che mio padre risponda, capisci? Una lunghissima serie di squilli che mi angosciano profondamente, dal momento che mio padre comincia a sbuffare sulla sua seggiola. Sento gli sbuffi spazientiti di mio padre che a quanto pare non è per niente grato del fatto che io stia cercando con tutte le mie forze di salvare la sua fede nuziale, questa cosa fondamentale e incompromettibile, nella mia piccola testa, e forse, forse pretende che qualcuno muova le chiappe fino al telefono, e visto che in casa ci siamo solo io e mio padre, forse pretende che si tratti delle mie chiappe. Non so come spiegare il molteplice senso di tristezza di quei pochi attimi, come una specie di tradimento sotto vari aspetti: la doppia pretesa di mio padre, la sua noncuranza e, da un certo momento, quasi dispetto nei confronti del mio tentativo, e, ciò che era alla base di tutto, il suo disinteresse per la questione dell’anello, perché si trattava di questo. Quando si è spalancata la porta nel corridoio, ho sentito il lungo sospiro di mia madre e il rumore di due borse di plastica che lei posava sulla moquette. Mia madre non ha avuto niente da dire del fatto che il telefono suonasse senza che nessuno andasse a rispondere. Ha risposto lei. Mia madre ha sollevato il ricevitore e ha fatto: “Siii?”

 

Matteo Fulimeni

 

 

© Giovanni Marrozzini

Nicola

 

 

© Giovanni Marrozzini

Donatello

 

 

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Enrico

 

 

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Fabio

 

 

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Nicola

 

 

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Daniele

 

 

© Giovanni Marrozzini

Roberto

 

5 Responses to “Quella linea sottile.”

  1. Laura scrive:

    Storia triste e toccante…
    Penso che per molti quella “linea” non sia sottile per niente…

  2. bruno scrive:

    Grazie Matteo
    quella linea è veramente sottile ed ipotetica per tutti , sei riuscito a descriverla con affetto distaccato .

  3. Marco Illuminati scrive:

    Bello

  4. Rosalia scrive:

    Bellissimi ritratti!

  5. Arta scrive:

    storia veramente toccante.ogni volta che lo leggo mi viene la pelle doca.vi amiro e vi ringrazzio che avete trovato il coragio di dividere queste rigge con noi. ogni rigga e una lezione per me. vi ringrazio veramente. un abbraccio per tutti.

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