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Tre piccoli fatti.

Parco nazionale della Maiella –  Ci sono una serie di piccoli fatti. Ad esempio non ho dormito niente. Nel parcheggio di quella sottospecie di autogrill non ho dormito niente. Il mio corpo ha tracciato traiettorie ad s sulle lenzuola per tutto il tempo in cui non ho dormito; e delle succitate curve restano robustissime tomografie biancastre. Era l’unica sottospecie di autogrill nell’arco di un’unità astronomica e c’è stato un frequente, ripetuto schiamazzo nel corso di tutta la notte. Nella notte più buia. Botte di sportelli e ruggiti di motrici. Nella fessura pelosa delle ciglia si vedevano manciate di punti luminosi nel mezzo di ciò che non si vedeva. I rumori erano boati di rimorchi oppure vere e proprie grida festive. Ho sentito grida festive di ragazza. E il vento infuocato ha tentato di divellere l’oblò, senza preavviso, e questo ha costernato il nostro sonno. Il tentativo di fuggire al soffocamento non è valso a nulla, secondo fatto. Salendo d’altitudine  il panorama non era esattamente gradevole, tutto fuori fuoco per l’umidità. I boschi erano neri. Batuffoli di bosco, neri e cadenti tipo colate laviche. Poi la strada per salire disegnava una morbida corona attorno alle rade calvizie dei monti. Ho rivolto a lungo uno sguardo interessato alle sagome disciplinate dei tralicci dell’alta tensione che seguivano la strada. Ragazzini disciplinati con gli occhiali spessi. I cavi laschi fra un traliccio e l’altro un motivo ornamentale a ondine. Poi l’ennesimo altipiano, di un bruno virato all’arancione, sotto il cielo di lega di metallo all’ultimo stadio di bollore. C’era il vento che sparpagliava un odore floreale piacevolmente zuccherino. Fiori a mazzi sui bordi dell’asfalto. Una ferrovia che attraversa l’altipiano, infossata come un canale, sotto la strada che affetta l’altipiano. Roccaraso è piena d’alberghi con l’intonaco candeggiato e i brutti tetti scuri pesantemente spioventi. Sulle piste soffia un vento regale che fa genuflettere i lunghi fili d’erba bruciata e scuote il camper. I tralicci delle seggiovie sembra stiano perdendo definitivamente l’equilibrio. Il terzo fatto è che l’ipossia poteva ridurci male, nel camper, dopo pranzo. Come ieri. Poteva ucciderci e mummificarci. Farci ritrovare cadaveri perfettamente essiccati. Stoccafissi umani. Incredibili reperti. Per fortuna che G s’è alzato ed è corso via come se andasse a fuoco, come una torcia umana, grondando, e l’ho visto svanire dietro l’angolo e riapparire dopo un po’ di tempo con un paio di caffè shakerati ghiacciati in bicchieri di plastica infilati nei buchi di una confezione di estathé. Pare abbia detto alla barista di aver bisogno di qualcosa che abbassasse il più rapidamente possibile la sua temperatura corporea. Ha gettato la barista in un attimo di confusione. Le ha fatto capire che era questione di vita o di morte. Le ha fatto gelare il sangue. S’è portato dal bar anche una scatoletta di gelato. La scatoletta aveva iniziato a sudare, letteralmente, mentre inoculavamo nel nostro corpo il caffè col Bayles. Poi in camper abbiamo una nuova canzone adesso, fatalmente romantica, di allegria lancinante, di quella poesia che credi che ti salvi; e mi ci sono immaginato un ballo. E pure G. Oggi ne ho fatto un loop interminabile. Non basta mai, e ci andrà a nausea. Forse. Il resto gira tutto intorno a quello che non si riesce a dire. Non mi piace la Maiella, meglio il Gran Sasso. Ma meglio di tutto casa mia. Ah, e c’era persino l’accenno di un lago, su un panorama bellissimo, su una collina aguzza in cima a una strada dritta verso il cielo. Una pennellata blu tra i monti, immobile come una breve spiaggia senza stagioni.          

Matteo Fulimeni

© Giovanni Marrozzini

 

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