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A luci rosse.

Marina di Altidona ( FM ) –  David Fazzini, che ha uno studio di sviluppo e stampa a Marina di Altidona, è già l’incaricato ufficiale allo sviluppo di quella quantità inconcepibile di rulli che il Marrozzini, barbuto e amabilissimo collega e compagno di viaggio di chi scrive nel tour di ITAca,  ha impressionato con la sua Hasselblad nel corso degli ultimi quattro mesi, e che sono il corpus essenziale del suo lavoro, lo scrigno di quasi tutte le storie che vedranno luce nel libro alla fine di questo progetto ( tutte cose che nel blog non avete visto ). Ieri siamo stati a trovarlo e mi sono fatto spiegare un po’ di roba, mentre il Marrozzini lo immortalava. Ecco allora che all’impressione di queste prime sei righe, l’impressione di una marchetta, io vorrei aggiungere la qualità di un’originalissima dichiarazione d’amore. David, mi sono innamorato del tuo lavoro e vorrei, di seguito, descriverne meglio che posso l’essenza. So che sarà un fallimento, come ogni dichiarazione d’amore, e che ogni dichiarazione d’amore, viziata dal desiderio di dire tutto e bene, scivola in una sorta di pigra rassegnazione al cliché pieno di sottintesi. Mi opporrò con tutte le forze, nelle righe che seguono, a questa languida deriva, sperando di aver servito la tua arte con la stessa acribia passionale con cui la servi tu, eccellente servitore. 

Il primo momento di un processo di stampa fotografica, lo sviluppo della pellicola – che è il suo preliminare  – richiede il buio. Di ciò che si è ghermito attraverso la meccanica della macchina, si ha un labile, fragile ed inespresso potenziale: è l’immagine latente, un bassorilievo scolpito dalla luce  in un marmo di poliestere, gelatina animale e sali d’argento. Si tratta, però, di un bassorilievo quiescente, che giace sul fondo lucido e buio della pellicola. L’immagine è invisibile ma non incorporea: l’esatto opposto di uno spettro. Quasi che la procedura volesse, in sé, conservare qualcosa di un confuso, pioneristico mistero ( che invece la tecnica, in genere, tenderebbe a revocare o disperdere  attraverso la ripetizione e il calcolo ), ecco l’operato della luce su un supporto fisico – la scrittura di luce – liberarsi di ogni possibile analogia con le altre arti (con la stessa scrittura, che avviene in un solo gesto ) pretendendo, in una ritrosia altezzosa, un secondo tempo che la evochi. La luce come mezzo esige un corteggiamento. Insomma, in altre parole, è come se ciò che nella fotografia nasce come magia ( la luce che scrive e noi che ne intercettiamo la scrittura ) durante lo sviluppo e la stampa continui a riproporsi, perpetuandosi, sotto forma di una procedura faticosa, labirintica e rarefatta ( ve ne sto per parlare ), e che questo difenda, in qualche maniera, ciò che di favoloso e misterioso assegniamo, nel nostro immaginario, ad un fenomeno fisico che proprio la tecnica non si farebbe scrupoli a dissezionare nei suoi elementi concreti e nelle sue impoetiche, elementari componenti. E invece, semplificando, il processo di sviluppo e stampa è un processo tecnico che per una specie di miracolo, o di sottaciuto autoinganno, contiene, proprio nei suoi aspetti tecnici, della genuina poesia. Si detiene, di fronte a pellicole e bagni acidi, lo stesso ingenuo candore, la stessa soggezione interessata che si prova di fronte a una bella donna di cui siamo adolescenzialmente innamorati. Vuole essere evocata, e noi fingiamo di dimenticare che anche lei frequenta la tazza del water. E’ una magia, e non una reazione chimica, a suscitare l’immagine. Come sempre, non è la realtà a interessarci, ma l’affabulazione. E niente, più di un’immagine, è tanto lontana dalla realtà: fissa, inalterabile, compiuta come una storia.

Lo sviluppo della pellicola, l’evocazione della sua immagine latente, impone allo stampatore un disciplinato esercizio di umiltà ( più di tutti i passaggi successivi, che pure implicano e sono dominati dalla devozione). Estratta dal corpo della macchina fotografica in completa assenza di luce, la pellicola viene arrotolata (caricata) attorno a una spirale che a sua volta va inserita in un Tank di sviluppo, una specie di piccolo termos in grado di raccogliere le soluzioni di sviluppo, arresto e fissaggio ( l’acqua per il risciacquo e l’imbibente, una sostanza che deterge il calcare ) e proteggere la pellicola da possibili, fatali infiltrazioni luminose. Qui l’immagine viene incubata. Versata la soluzione basica nel tank ( quella che evoca l’immagine ), è necessario agitare il tank per un minuto continuo. Poi, a seconda del tipo di pellicola, per alcuni secondi, ad intervalli regolari. Poi nuovamente per un minuto intero nel momento in cui l’immagine è arrestata con l’acido acetico. Lo stampatore presiede alle fasi dell’incubazione aderendo interamente alle regole ferree della procedura; come un operaio, si presta alla ripetizione meccanica del gesto, sacrifica maternamente la propria creatività perché l’immagine superi la strozzatura della sua prima forma: infatti, la successiva, infinita riproducibilità dell’immagine dipende in tutto e per tutto dalla sua corretta venuta alla luce. Se muore adesso, muore per sempre. Nel momento cruciale della nascita lo stampatore si sottrae ad ogni velleità creativa per mettersi al servizio responsabile dell’immagine; compie, con la più grande cura e il più grande amore possibili, un lavoro del tutto impersonale, che in virtù di ciò, ne nobilita il compimento, l’esito ( cosa che vale per ogni operaio di questo mondo ). L’attimo della creazione coincide con un recesso della creatività, l’uomo si mette a completa disposizione del processo. Tendo a vedere il bene, in questo sacrificio che può apparire esecrabile. In qualche maniera riecheggia l’atto del vero concepimento, laddove l’amore e la soggettività, ciò che è assolutamente intimo, incomparabile e unico, convalidano e compiono un atto fisico sintetico, impersonale e uguale per tutti ( qualcosa che, oltre a confonderci con l’umanità, ci limita entro gli steccati della natura ) affinché quella stessa soggettività e quello stesso amore possano esprimere una testimonianza reale, tangibile, della loro esistenza irripetibile: una creatura, un figlio.

Come un osservatorio astronomico, la camera oscura ( d’ora in poi c.o.) è immersa nella luce rossa. Questa luce a bassa frequenza, però, ha qui il compito di proteggere non la visione, ma la creazione. Dentro la c.o. il soggetto a dover essere tutelato è l’immagine che sarà sviluppata e stampata, non lo sguardo dei suoi fruitori. E’ un luogo di gestazione, ha la natura, le fattezze di un organo: come una specie di antro uterino ( una volta stampata, la foto sarà lavata, asciugata eppoi esposta, proprio come un neonato – eppoi, volendo, grottescamente imbalsamata col selenio, come se ci fosse bisogno di rimarcare la sua natura oggettuale ); chiuso da una doppia valvola di cortine nere, si mantiene ad una temperatura costante – tiepida, fertile – ed è dotato, autarchicamente, di tutto ciò che è necessario alla maturazione dell’immagine: gli elementi organici o l’hardware ( l’ingranditore, il supporto cartaceo ) e i nutrienti o il software ( la soluzione basica, l’acido acetico, l’iposolfito di sodio eccetera ). All’interno di questo ambiente, lo stampatore, persino nel suo ruolo attivo\creativo, sembra calarsi nei panni di un supervisore, oppure, ostinandosi con la metafora organica, di un enzima. Qualcuno che dirige, canalizza e asseconda un processo, sempre a costo di devoto sacrificio ( nella c.o. manca l’aria, la vista è messa a dura prova, e gli schizzi di acido ti fottono le camicie ). Gli interventi creativi di uno stampatore sono aggiustamenti,  reindirizzamenti. E’ praticamente chiaro, quando dalla bacinella di sviluppo ( dove la soluzione basica fa emergere l’immagine latente che l’ingranditore ha impresso – attraverso il negativo – sulla carta ) si passa alla bacinella di arresto ( dove l’acido acetico ferma lo stesso processo di sviluppo, che altrimenti proseguirebbe per inerzia fino a rendere l’immagine illeggibile, proprio, a quanto pare, una macchia nera ), e dalla bacinella di arresto, a quella di fissaggio ( dove l’iposolfito di sodio blinda l’immagine togliendo alla carta la vecchia sensibilità alla luce ). Qui si gestisce il processo. Ma è un po’ meno facile da notare, ad esempio, nell’aspetto che di questo mestiere è capitale: la gestione del contrasto (scaglionata e complessa). L’abilità dello stampatore, secondo il mio parere, profano ma spero non sacrilego, sta tutta qui: nella sua capacità di dosare, governare e regolare tutti quegli elementi e forze ( espressioni di processi che agiscono su quegli elementi nel corso del tempo ) che a partire dalla nettezza del bianco e nero ( la stampa a colori merita un discorso a sé ) producono sfumature.  Orchestrare le sfumature combinando, attraverso una gestione creativa ( forse la miglior sintesi di ciò che uno stampatore in effetti, fa ), tutte i predetti elementi e forze da cui dipendono. E ne sono una quantità. Ecco un po’ di quelle cose, sicuramente non tutte, che incidono – determinandolo – sul contrasto: il tipo di pellicola; l’agitazione del Tank in fase di sviluppo della pellicola; il tipo di carta;  il tipo di ingranditore ( un diffusore darà meno contrasto di un condensatore ); l’equilibrio percentuale dei reagenti nella bacinella di sviluppo; l’agitazione, opzionale e più o meno intensa, del liquido nella bacinella ( una maggiore agitazione comporterà uno sviluppo più omogeneo e violento del nero ); la temperatura dell’acqua nella bacinella ( inversamente proporzionale al tempo di immersione ). Una marea di variabili che vanno montate, incassate, fatte collimare, sfruttando spesso le equivalenze o le sottili, quasi invisibili discrepanze originate da una scelta di preferenza, da un tocco in più o un tocco in meno, come nel caso di un cuoco, o di un alchimista. Questa tensione verso la continuità che procede per accumulo di approssimazioni, e cioè il fatto che per giungere all’immagine analogica si proceda per una serie di fasi complicate, tortuose, reiterate su scale diverse ( pensate ai vari attori che, in ordine crescente, agiscono sulla pellicola: la macchina, il tank, l’ingranditore ), componibili e  in ultima analisi discrete, mi persuade con una certa sconsiderata energia che, ontologicamente, non ci sia nessuna sostanziale differenza fra la fotografia analogica e quella digitale; solo che, entrando nell’orbita di questa diatriba pericolosissima al punto da farmi rimpiangere di esserci finito, prima di tirare inopportunamente in ballo il buon professor Schrödinger, sul punto di smettere di spalancare la mia empia e selvaggia spelonca dell’ignoranza, mi rivolgo a tutti ma soprattutto ai ragazzi, miei coetanei o meno, e dico: interessatevi a questo mestiere, è bello; avrete a che fare con l’oscurità e la luce, l’illusione e la prassi. Con la gestione di enormi e tangibilissimi pixel.    

Matteo Fulimeni

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

 

© Giovanni Marrozzini

3 Responses to “A luci rosse.”

  1. s. scrive:

    “La luce esige un secondo tempo che la evochi…La luce esige un corteggiamento”. Questa si che è una dichiarazione d’amore coi controfiocchi!

    La cosa più impressionante della camera oscura secondo me è che nel buio gli occhi sono spalancati e non vedono nulla. E cosi all’improvviso tutti gli altri sensi si accendono. Si risvegliano. Il cavatappi che apre il rullino rimbomba tra le pareti strette della camera oscura. L’odore della pellicola ti sale su per il naso. Le tue mani toccano, stappano, contengono, riconoscono, accompagnano, avvolgono, tagliano…tu sei li, in quel momento. Sei nel presente, con tutto te stesso.

  2. David scrive:

    Non nascondo l’emozione che ho provato nel leggere le parole di Matteo che con il suo modo di scrivere così incisivo e profondo, seppur assolutamente “a digiuno” in materia fotografica di camera oscura, ha colto più di ogni altro la vera essenza di un mestiere che sta lentamente scomparendo, travolto dall’immediatezza del digitale che nei giovani fotografi, sempre più frenetici, trova ampio consenso. Sebbene ero scettico alla proposta di Giovanni di fare questo servizio, sono felicissimo di aver accettato, perchè oggi più che mai ho la certezza che lui, come fotografo e artista, attraverso il suo esempio, la sua fotografia, i suoi meravigliosi ritratti, possa trasmettere la voglia d’imparare a fare “vera fotografia” a tanti giovani fotografi; ad inculcare in loro la voglia di trasmettere il proprio “messaggio” con la consapevolezza di potercela fare imparando ad aspettare l’attimo giusto, come lo stampatore aspetta pazientemente che l’immagine compaia sul foglio bianco dentro lo sviluppo; senza forzare i tempi.
    Spetta a noi cercare di coinvolgere ragazzi come Matteo che non aspettano altro che conoscere questo meraviglioso mondo.

    Caro Matteo, è stato un piacere; tieniti stretta tutta la tua sensibilità che è la tua vera forza! Caro Giovanni, grazie di essere entrato nel mio laboratorio in quel oramai lontano 2003…
    Grazie di cuore ragazzi!

  3. Luca Pelusi scrive:

    C’era una volta il reportage. E la pellicola.

    A guardare la storia del reportage fotogiornalistico, penso sia innegabile che il bianco e nero sia stato il colore dei sentimenti e degli avvenimenti. Il reportage, il fotogiornalismo è nato con il bianco e nero, il bianco e nero chimico, quello della camera oscura, delle bruciature e delle mascherature in fase di stampa, le stesse che i programmi di ritocco fotografico propongono in maniera digitale. A me il digitale comincia a darmi un po’ sui nervi, perché il fotoritocco digitale (quello spinto), il fotomontaggio tolgono realtà alla fotografia, la rendono meno incisiva. La fotografia è reale: nel senso che quello che fotografi esiste nella realtà, non è un sogno, un’astrazione, un prodotto della fantasia, c’è, esiste: il fotografo si limita a raccogliere. Questo fa il fotografo: attende e raccoglie, come se fosse (si fa per dire) al servizio della realtà. Certo è un’attesa consapevole, attenta, mai noiosa, anche se poi scopre che ci sono scatti che non sa neanche lui come sono saltati fuori. Lui era lì. E questo basta. Fotografare, in fondo, è un tentativo di raccontare storie. C’è chi lo fa con le parole, chi con i cortometraggi, chi con i fumetti e chi con un libro fotografico. Ma qualunque modo si voglia usare per dire una cosa sul mondo bisogna «possedere» un minimo l’idea di quel che si fa, avere in mano il progetto. Perché la fotografia si fa sul campo, sporcandosi le mani, mettendosi in gioco, faticando. «Ottica fissa e stai sul posto», dicevano i vecchi fotografi, ponendo l’accento sull’attesa che precedeva lo scatto. Non si tratta di fare i nostalgici: raccontare storie è un mestiere duro. Lo sanno bene i giornalisti, i romanzieri, gli sceneggiatori, i registi, i fumettisti. Speriamo in tempi più autentici, senza troppi effetti speciali, perché il vero effetto speciale deve trovarlo chi racconta, nel soggetto.

    Luca Pelusi, Teramo.

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