copertina_ALB2088

Non fossi mai nata.

Sassoferrato (AN) – Anche se non siamo troppo rumorosi, al nostro passaggio nei corridoi gli ospiti della casa di riposo affiorano con lenta curiosità dalle stanze, e dopo una presentazione molto breve, concludono la loro piccola escursione su qualche seggiola lasciata vuota in giro, nemmeno più troppo curiosi, ma come appagati dalla novità, presenziando quasi senza guardare, con un sorriso flebile, seduti silenziosamente uno accanto all’altro, negli androni dove il primo pomeriggio passato al setaccio di tende e tapparelle semichiuse lascia piovere la sua debole risacca di luce sulla carta da parati acquamarina, e una piccola televisione mormora appena sopra le immagini di un vecchio film in technicolor che nessuno  segue veramente, nell’aria un po’ medicinale. Alcuni, però, rimangono nelle stanze, e li osserviamo dalle soglie: seduti con le spalle curve, davanti ad una finestra aperta che si affaccia sul cortile dove non batte più il sole, o allettati, che girano gli occhi verso di noi e forse si sentono violati.

Nella luce trasparente della sala da pranzo, le signore, taciturne, occupano la tavola ancora apparecchiata, e alcune dormono di sghimbescio, sdrucciole, sulla propria sedia. La piccola suora che ci accompagna, una donna nutrita di esperienze ma che dimostra ancora la forza di commuoversi, invita una di loro, che dice essere molto brava, ad intonare quella vecchia canzone che Claudio Villa dedicava alla mamma. Pungolata da un accenno di melodia, la signora, per certi versi assente, si rianima e inizia a cantare come durante una prova generale, guardando un punto lontano, ma sentimentalmente, drizzandosi impettita come un serpente incantato, le braccia composte sulla tavola ma le mani che artigliano la tovaglia sostenendo il proprio sforzo e le parole che spesso cedono il passo ai più semplici suoni o a certe affannose e commoventi  inspirazioni, per poi riaccendersi, mentre le altre, sollecitate dal suo primo canto,  pian piano iniziano a  seguirla, oppure trovano il modo di sottolineare, con civetteria maligna, la cacofonia delle compagne più emancipate.

G. è impegnato nei preparativi di una fotografia importante e una voce dal fondo della sala intima che venga scattata a colori, autoritariamente, così tutti sono costretti a girarsi; come il carismatico di un western, appena oltre il corridoio,  lei fa il suo ingresso in scena, magrissima nella camicetta rossa e un po’ malferma, con quell’aria distintiva e aristocratica della popolana, reggendo delle coperte in grembo e con una tazza appesa per il manico su due dita sottili – mentre le altre mostrano di sorridere come quando qualcuno fuori dalla nostra cerchia sperimenta per la prima volta le esuberanze di un nostro amico interessante. “Lei come si chiama?” – domanda rapidamente G, decidendo di tenerle testa. “Non Fossi Mai Nata” – risponde lei dal fondo, intenzionata a proseguire la sua performance, con l’ironia e la seria amarezza delle persone intrinsecamente timide e buone. A questo punto G tenta la sua seduzione, paragonandola a un Modigliani.Il paragone, brevemente giustificato, la trova d’accordo. “Che, no lo so, io?” – risponde, in romanesco – “ C’ho il collo de na giraffa e ‘l naso de n’elefante! Sai chi me dice bella a me? Il telefono. Io lo alzo e glie chiedo: “Chi è la più bella a questo mondo?”, e lui me ripete sempre “TU-TU-TU-TU…”. Nel corso di questo breve scambio le teste di tutti si muovono rapide a destra e a sinistra, come ad una partita di tennis; dal corridoio viene il grido di un uomo che invoca sua madre, puntualmente scandito, intriso di una disperazione sempre uguale e raggelante.   

Matteo Fulimeni

© Giovanni Marrozzini

                                          

4 Responses to “Non fossi mai nata.”

  1. daniela scrive:

    Matteo, sorprendentemente realistiche le tue metafore e affascinante la dinamicità narrativa dell’ultimo paragrafo in cui passi da un “duello” western a una partita a tennis e poi alla inesorabile staticità della sofferenza.Perchè nemmeno l’ironia leggera delle tue parole poteva scampare a quell’acuto lamento di dolore.
    Giovanni…sei riuscito a cogliere in un unica espressione 100 emozioni diverse e contrastanti…essere stata lì mentre lavoravi è stato molto utile ma adesso che vedo anche il risultato del tuo lavoro posso dire che è davvero illuminante per me.
    …m’illumino d’immenso…. :)
    buon viaggio!!!

  2. Luca scrive:

    Bravo Matteo!! Sensibilità e proprietà di linguaggio non comuni. Per “sdrammatizzare” aggiungerei che è stato fantastico vedere Nanni Moretti dirigere Anna Mazzamauro!!!!
    Buon lavoro!!

  3. Massimo scrive:

    Grande Giovanni, hai dato alla morte un colore.

Lascia un commento a Luca