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Mi fece molto male.

Cupramontana (AN) –  L’ultimo giorno della mietitura, nel fuligginoso tramonto, vidi le ombre dei mietitori risalire stancamente il campo e radunarsi presso la sagoma scura della casa, vicino all’albero di ciliegio, lungo l’orizzonte. Sfilavano sino alla figura monumentale e solida del padrone, contro il cielo sanguinoso. In piedi sulla soglia, uno ad uno, ma senza lodarli, li pagava tutti. Vedovo, le sue tre figlie, una graziosa e pallida, una rosea e romantica, una fredda e marziale, ben allineate, assistevano alla scena, per la loro educazione. Quando il padrone rientrò, lo seguirono in fila indiana. Una di loro si voltò a cercare con lo sguardo chissà chi, mentre l’altra la sospingeva rimproverandola (e la terza commentava). I mietitori salirono sui carri e presero il sentiero. Stanchi e sballottati, si addormentarono così, promiscuamente. Quella stessa notte cadde di colpo una pioggia insolitamente fredda e battente, e nel campo l’aridità lievitò in odore. I tuoni scoppiavano maestosamente dopo i lampi viola. Qualcosa successe nella casa, perché le lampade arsero ad un’ora insolita, e rimasero ostinatamente accese, nel buio. Poco dopo, serrata in uno scialle, una figura esile emerse nella pigolante luce della soglia e salì su un calessino, fra agitati bisbigli, e presto, dalla casa, vennero dei lamenti straziati. Le stelle riempivano di nuovo il cielo. Quando il calessino tornò, il dottore fu accolto inutilmente. Un’ora dopo giunse il prete, che se ne andò – mangiando distrattamente noci, estratte dalla tasca – soltanto nel pieno di quelle albe vitree che seguono le notti burrascose. Per tutto il resto dell’estate, ma soprattutto dell’autunno e dell’inverno, le tre ragazze portarono il lutto, e passarono quasi ogni  giornata in casa, dietro ai vetri opachi, senza produrre un solo rumore. La neve cadde e si sciolse, il campo non venne seminato. In primavera, la casa, piena di ricordi, fu ceduta, vantaggiosamente, a un compratore. Era un uomo elegante e smunto, grigio come un cadavere, anche se giovane, che veniva dalla città, e al quale la sorella che si occupò dell’affare non concesse il baciamano ( la seconda ne rideva, la terza commentava che il signore aveva l’aspetto di un poeta ), e sembrava la vecchia preda di una grande delusione, alla ricerca di una pace che l’animo inquieto pareva non permettergli neanche qui, nel costante ronzare della campagna. Non s’interessava della produttività della proprietà, non tagliava la legna, e molto di rado si recava in paese. Ma era colto e malinconico, e molto spesso faceva lunghe e meditabonde passeggiate che concludeva al mio cospetto, fissandomi con uno sguardo interrogativo sul fondo del quale sembrava sedimentata una specie di sopita violenza: era uno sguardo al tempo stesso acuto e ottuso, che pinzava un naso affilato, e lo ricambiavo rabbrividendo ( in un certo senso ). Spesso si sedeva ai miei piedi e leggeva lungamente sempre gli stessi libri, ma alla fine li chiudeva, rabbioso e inconsolabile e risaliva la china, verso la casa, dalla quale, più tardi, si levava un incerto e grigio filo di fumo. Una mattina tersa, che era ancora presto, calpestò il cortile in un impaziente comportamento d’attesa, maneggiando una lettera, e rileggendone poche frasi a voce alta. Era di nuovo estate. Dal fondo della valle giunse una giardiniera traballante, lenta e sporca, coi resti di un carico di cavoli, e ne scese la persona che attendeva. Ci fu un largo, tripudiante abbraccio, languido e virile, mentre il cocchiere, ignorato, se ne ripartiva. L’uomo, cittadino, con un mento affusolato, due lunghe basette, la voce potente e l’aspetto deciso, si stabilì, da quel giorno, nella casa. Scrittore, aveva trovato la maniera di sistemare un piccolo banco sotto le fronde del ciliegio, dove lavorava assiduamente, nei lunghi pomeriggi estivi, senza distogliere mai gli occhi dalla pagina, mentre l’altro restava ad osservarlo, indecifrabile. Anche insieme, stabilirono di fare lunghe passeggiate per tutta la proprietà, accompagnate da discussioni che spesso implicavano gesticolanti soste, durante le quali i due confrontavano le proprie posizioni politiche, i gusti letterari, le idee morali; il nuovo ospite, la cui efficace e persuasiva voce, al suono della quale l’altro soccombeva ogni volta (con crescente fastidio), trovava che in un campo in quelle condizioni la mia presenza fosse non troppo giustificata, scontrandosi però con la sola ferma opposizione dell’altro, taciturna, che sempre mi fissava in quella maniera grata ed ostile, quando ne aveva occasione, restando appeso a lungo al nodo scorsoio di un pensiero nebbioso, mentre l’altro gli annunciava quasi tutti i giorni di essere a buon punto con il libro d’idee concepito sotto il ciliegio, una indispensabile opera dell’intelletto; che infatti annunciò di aver finito la sera del ventuno agosto di un anno che non vi sto a dire, la stessa sera in cui, nella notte afosa, dopo aver entrambi sbevazzato in gloria della filosofia e aver allungato retoricamente i calici al cielo, il bucolico pamphlettista si ritrovò stordito, svenuto, finito, maldestramente trascinato eppoi sotterrato sotto il ciliegio dopo un ben assestato colpo di vetro di cognac scagliato per sopravvenuta emersione di una lunga gelosia e rivalità che adesso l’altro si apprestava a dimenticare sotto due tre ubriachi colpi di vanga nel buio. E dal campo, io seguii la scena. Tempo dopo, una mattina che stava bevendo del tè fumante, quattro buie e perversamente autoritarie figure si presentarono alla sua porta mostrandogli un piccolo volume rilegato ( lo tenevano come una pergamena, e aveva i bordi dorati ) che lui, a precisa richiesta, si attribuì con un malfermo orgoglio, che di fronte alle quattro facce di agghiacciante ostilità mutò perspicaciamente in sospetto che mutò altrettanto rapidamente in una smentita di attribuzione, sgolata e lacrimosa, mentre i quattro loschi, autoritari e bui figuri, ormai sicuri sul da farsi, passando da movimenti compassati a concitati, lo abbrancavano con la forza di quattro, con una perizia senza furia, e lui si dimenava e urlava alla campagna e al campo e a me che non potevo muovermi assolutamente, in un’eco di implorazioni, sostenendo disperatamente di non essere lui lui, ma che l’altro era lui, questa coreografia di corpi si mosse dalla casa fin dove la collina si infossava, e c’ero io, e mi staccarono un braccio, e glielo diedero in testa, più volte e con violenza, mi fece molto male, e a lui zampillò fuori il sangue, prima che mi prendessero pezzo per pezzo e mi gettassero (pezzo per pezzo) sul suo corpo molle che tremava e spasimava ancora e andava per forza fatto sparire, e io mi dicevo, mentre, grazie al mio contributo, iniziavamo a bruciare, quanto fosse strano, guardando in alto, dov’ero rivolto, dopo tutta la mia povera, immobile vita, per la sola e unica volta, crepando, vedere aggirarsi, lassù, contro il cielo rosa, neri, gli uccelli.          

Matteo Fulimeni

© Giovanni Marrozzini

One Response to “Mi fece molto male.”

  1. daniela scrive:

    0 commenti ad ora…..è evidente che siamo rimasti senza parole. Non è un racconto ma una sinfonia. Tutto in movimento tranne il testimone…e magnifico il cielo che da “sanguinoso” diventa “rosa,neri,gli uccelli”.Ogni volta che lo rileggo trovo qualcosa di nuovo.
    La foto….bè che ve lo dico a fa’? E’ un’altra storia

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